La guerra ai tempi del covid
10 Ottobre 2020
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La guerra ai tempi del covid

“Un film di luce dai materiali oscuri della storia”. Così ha definito Notturno il regista Gianfranco Rosi, presentandolo lo scorso 9 settembre alla 77a edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Girato nel corso di tre anni fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano, questo documentario racconta, stando sempre alle parole di Rosi, “la quotidianità di chi vive lungo il confine che separa la vita dall’inferno”. La guerra non entra direttamente in scena, ma la si sente attraverso il pianto di un bambino ferito, l’angoscia di una madre per una figlia prigioniera, la fatica di un adolescente nel portare il pane ai fratellini. Insomma attraverso un’umanità che ogni mattina si risveglia, in uno scenario di distruzione, da un notturno che sembra eterno.

Se dopo Sacro GRA e Fuocammare, vincitori rispettivamente del Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia nel 2013 e dell’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 2016, non ci fosse stato Rosi a richiamare l’attenzione sul Medio Oriente, quanti di noi, presi dai quotidiani bollettini e dai timori per la seconda ondata del Coronavirus, si sarebbero chiesti: che cosa sta succedendo oggi in Siria? Che ne è stato di Aleppo? Il conflitto, che ha avuto inizio dalla crisi siriana nel 2011, nel quadro più ampio della primavera araba, e che l’anno dopo si è trasformato in una guerra civile, è tuttora in corso. Secondo le Nazioni Unite, dal 2011, in Siria si contano più di quattrocentomila morti a causa del conflitto. Ma alle morti e alla devastazione, si aggiungono altre nefaste conseguenze. A cominciare dal dramma dei rifugiati, oggi arrivati quasi a sette milioni di persone, che, in fuga dalle violenze, si sono ammassate al confine con la Turchia in cerca di salvezza, mentre fuori imperversano le politiche europee di chiusura delle frontiere. Alla tragedia umanitaria si è poi aggiunta la catastrofe sanitaria dovuta al diffondersi del Coronavirus. E a pagarne il prezzo più alto sono i più indifesi tra gli indifesi: i bambini siriani, che, oltre a perdere l’infanzia, rischiano ora, a migliaia, di perdere il bene più prezioso: la vita. Non hanno ospedali per essere assistiti, né scuole in cui studiare, né case sicure in cui ripararsi.

Ma per uno strano fenomeno accade che quello che non vediamo non esiste. Le persone che muoiono lontano dai nostri occhi non ci somigliano. Non accettiamo che chi muore perché colpito durante gli scontri o di freddo perché ha perso la casa sia identico a noi. Per fare lo sforzo di immedesimarci e accettare di provare dolore anche noi, non ci rimane perciò che ricorrere alle immagini: e se non quelle di Notturno, almeno due semplici foto tratte dalla Childrens Hospital Bambino Gesu PaginaFan, ovvero la pagina dedicata ai bambini ricoverati all’ospedale pediatrico “Bambino Gesù” di Roma. In una delle due immagini, una piccola siriana di 4 anni, di nome Hudea, trovatasi di fronte al fotografo Osmar Sagirli nel campo profughi di Atmeh, scambia la macchina fotografica per un’arma e ‘si arrende’. Nell’altra immagine, una bambina più piccola, di cui non conosciamo il nome ma che è evidentemente a sua volta ‘ospitata’ in un campo profughi, pensa che il fotografo abbia fame e gli offre un pezzo di pane… “Nulla è più bello del dono di un bambino soprattutto quando non ha niente”: è il commento che nei giorni scorsi accompagnava questa toccante immagine e che per noi vale come un piccolo frammento di saggezza.☺

 

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