Scuole e palestre
25 Aprile 2016
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Scuole e palestre

Ricordo ancora quasi con affetto la “palestra” delle medie, immensa per un bambino di 11 anni ma… con delle belle, bellissime colonne al centro. Era divertente per noi giocare a pallavolo, quando si schiacciava vi erano due possibilità: o la palla, di rimbalzo, ti prendeva in pieno fra le risate di tutti i compagni, oppure si finiva schiantati contro la colonna con grande spavento del professore.

Parlo dalle scuole medie perché la palestra alle elementari non esisteva, era un grande terrazzo all’aperto, ci si andava durante l’intervallo delle 10:15 quando eravamo stati buoni e, cosa ancora più rara per una città come Bologna di inverno, quando non pioveva. Ma che importava a noi, le gare di ruba bandiera erano tiratissime, e chi vinceva si sentiva l’eroe del giorno.

Era tanta la voglia di correre e giocare che si andava a scuola mezz’ora prima dell’orario delle lezioni per giocare davanti alla scuola a palla avvelenata … e qui solo i più anziani, pardon, i meno giovani, potranno spiegare agli altri in cosa consisteva e come poteva essere difficile schivare una palla da tennis tirata con forza.

Torniamo, seri, a parlare delle palestre scolastiche di quei tempi. Erano gli anni in cui l’ultimo pensiero delle scuole erano le palestre, si prendeva di tutto, stanzoni bui con le lampade al neon protette da griglie che illuminavano spalliere svedesi, pertiche, funi, dove il massimo era riuscire a fare ginnastica senza sbattere le braccia con il compagno, oppure, e la ricordo perfettamente perché era la mia palestra delle scuole superiori, uno scantinato che in altezza non superava i 4 metri, con il canestro fissato a 2 metri e 95 centimetri anziché i canonici 3,05, il che voleva dire che mi divertivo a schiacciare a due mani all’indietro, mi sentivo un campione della N.B.A. Il sogno americano si avverava. Ricordo ridendo la faccia che faceva il professore di ginnastica durante il salto in alto, rincorse sbilenche per prendere velocità, salti quasi al buio con il prof che urlava il suo  “Noooo”  perché gli sembrava che ti stessi schiantando contro i ritti.

E poi l’apoteosi dello sport, quando ti mandavano a fare le gare scolastiche di atletica. All’improvviso ti trovavi proiettato in pista, con il bidello che ti portava le scarpe con i chiodi per le gare di velocità, e tu non sapevi neanche cosa fossero, o come quando ti dicevano appena finito i cento metri “ora riposa che fra cinque minuti parte la campestre” e tu di rimando domandavi “quanto è lunga?” “Solo 5 chilometri” ti sentivi rispondere e accendevi una sigaretta per rilassarti. E al via correvi, correvi senza pensare ad altro che arrivare … già, arrivare… se arrivavi fra i primi 5 il giorno dopo eri giustificato dalle interrogazioni!

Ricordo con divertimento il giorno che a scuola si parlò, sussurrando, che nel nuovo istituto, il “Tanari”, c’era una palestra regolare dove giocare a pallacanestro e a pallavolo. Si sussurrava a bassa voce “C’è anche una piscina” e si restava a bocca aperta.

Allora a Bologna, “Basket City” eravamo chiamati, si disputava il torneo studentesco di pallacanestro, e noi giocatori facevamo di tutto per essere in squadra. Io il modo l’avevo trovato, facile, ero il capitano giocatore e allenatore e chissà per quale motivo giocavo sempre. Con la squadra composta a metà Virtus, e metà Fortitudo, si vincevano facilmente le prime partite, poi lo scontro diretto, la Finale con l’altra squadra, fortissima, del “Pacinotti” e allora volavano le scintille in campo, al Palasport, al PalaDozza di Bologna, allora soprannominato il Madison Square d’Italia tanto era bello.

Eppure ricordo ancora ridendo la partita al liceo Righi, la semifinale, tiratissima, una palestra quasi regolare, ma con i canestri attaccati al muro. Gigi Serafini, giocatore della Nazionale Italiana, un due metri e sedici che prende il rimbalzo, passaggio lungo, io di corsa, inseguito dagli avversari, un salto in avanti, piede contro il muro per spingersi in alto, giravolta aerea e schiacciata a due mani vincente.  Pubblico, avversari a urlare all’arbitro “Non vale, ha toccato il muro, è fuori” e lui sereno, “Non ho visto, ero coperto da voi, canestro valido”.

Ancora adesso qualcuno se lo ricorda e quando ci vediamo torna fuori quella storia metà seria e  metà no, ridendo con gusto.

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