Siamo coinvolti
6 Aprile 2022
laFonteTV (3191 articles)
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Siamo coinvolti

Avete mai sentito parlare di comfort zone? È un’espressione inglese facilmente comprensibile perché costituita da due sostantivi, ‘conforto’ e ‘zona’, se tradotti in italiano. Il suo significato potrebbe essere racchiuso nella seguente definizione, irriverente ma non troppo: “una vita facile e comoda, molto denaro a disposizione, divertimento e vacanze permanenti, nessuna responsabilità ed impegno, evitare il più possibile dolore e fatica, non prendere mai posizione su nulla perché è ‘compromet- tente’, non farsi domande sulle cose, evitare il più possibile guai e ‘rogne’, prendersela comoda stando ‘al caldo’, non essere coinvolti, fare il meno possibile sfruttando, magari, il lavoro altrui e ‘le occasioni’”. Ovviamente tutto ciò rappresenta un obiettivo cui aspirare, un desiderio tra i più comuni e – perché no – forse legittimi!

Avrei voluto soffermarmi su questo termine anglofono per il mio contributo di questo mese, e presentarlo in forma critica, riprendendo la riflessione sul mondo giovanile del mese scorso… Gli eventi di questi giorni – in cui metto giù queste note – mi riportano invece ad una realtà crudele e tragica, sempre più intrisa di insensatezza e orrore. La guerra ha drammaticamente fatto la sua ricomparsa nel nostro tempo, e con essa il suo ‘terrificante’ lessico. Non che il ‘fenomeno’ fosse stato accantonato del tutto perché, anzi, i conflitti armati hanno continuato ad esistere e a causare disastri, non soltanto bombe ed esplosioni, ma soprattutto profughi, migrazioni, disumanità. La guerra stavolta ha sede nella nostra area geografica, l’Europa, culla della civiltà occidentale.

Ed hanno fatto ritorno parole come missili, arsenali, assedio, e poi ancora blitz, oppure contractor, che non si sentivano dai tempi di Saddam Hussein: i vocaboli sono tanti ed il loro utilizzo nella comunicazione quotidiana sta rasentando l’ abitudine e l’assuefazione. Personalmente questo lessico lo sento estraneo, anzi mi terrorizza! Non provate anche voi una sensazione di spavento, ad esempio, quando sentite parlare di bunker? Questo vocabolo – che nella nostra lingua declamiamo così com’è scritto, riprendendo la pronuncia tedesca – sta ad indicare il rifugio sotterraneo, protetto da strutture in cemento armato o piastre d’acciaio, costruito con lo scopo di difendersi: esso costituisce certamente una necessità durante le azioni di guerra, è indispensabile per salvare vite umane. Ma, mi chiedo, non si potrebbe farne a meno? Perché costringere uomini, donne e bambini a vivere nell’ansia e nella paura di allarmi e sirene che interrompono bruscamente la loro esistenza quotidiana? Mi direte che sono un sognatore, come cantava John Lennon in “Imagine”, ma io ci credo ancora. E non sono l’unico, sono sicuro.

Dovrei vergognarmi di parlare di comfort zone a fronte di migliaia di persone, specie bambini, che sono costretti a lasciare le loro città per sfuggire a bombardamenti, esplosioni, disastri? Ne sono consapevole, ma sono anche convinto che la comfort zone è quella in cui ci troviamo tutti noi che assistiamo ad un conflitto che compare sulla scena del mondo, con i suoi attori, registi, tempi ed attrezzature, e che ha bisogno di una platea di spettatori, noi che stiamo – parafrasando Primo Levi – “sicuri nelle nostre tiepide case”.

Forse aveva ragione William Shakespeare quando affermava: “Il mondo è un palcosce- nico/ e tutti, uomini e donne, semplicemente degli attori;/ che entrano ed escono dalla scena”. No, non sto ridicolizzando una gravissima situazione: gli eventi bellici sono una dura realtà, le sofferenze delle persone sono un’inaccettabile condizione contro la quale tutti dobbiamo protestare perché terminino e siano restituite dignità e sicurezza ai profughi costretti ad abbandonare la propria nazione. Ciò che mi convince meno è la partecipazione, senza dubbio emotiva, di noi che assistiamo: quanto ci coinvolge questa situazione? Qual è il nostro stato d’animo? Abbiamo maturato in noi la consapevolezza che il destino dell’umanità non può essere relegato nelle mani di pochi, ma che una richiesta autentica di pace debba riguardarci tutti?

“La guerra, anche quella che si invoca o si fa per porre fine ad altre atrocità, ‘per far finire tutte le guerre’, non può funzionare perché è di per sé antitetica alle ragioni che la sostengono: la guerra è la negazione di ogni diritto” ci ricorda Gino Strada nel suo – postumo – Una persona alla volta, e prosegue: “Cominciamo ad esercitare, se non la fratellanza, almeno la nostra intelligenza. L’abolizione della guerra è un progetto indispensabile e urgente se vogliamo che l’avventura umana continui”.

Un po’ d’intelligenza, allora, e cerchiamo di uscire dalla nostra comfort zone!☺

 

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