Terra di confine
22 Maggio 2018
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Terra di confine

Quando da piccoli si veniva da Milano nel Molise per trascorrervi le vacanze, era un’esplosione di gioia: schiacciata tra borse e borsoni coi piedi incastrati al millimetro tra quelli di mio fratello, gustavo a morsi avidi come non mai i panini che mamma ogni tanto ci porgeva e in autostrada, guardando dai finestrini altri bambini seduti sul sedile posteriore delle macchine che sempre ci superavano, sapevo per certo che, non importava cavalcassero automobili-bolide, erano più sfortunati e tristi di me, perché alla fine del viaggio non li aspettava la sorpresa del paese, di quel paese, di quei nonni, quegli zii e quei cugini, quegli amici; poi, una volta superata la diga del Liscione in direzione di Campobasso-Mirabello, la gioia si tramutava in commozione tacita ed attenta, respiravo la libertà imminente misurandola dagli orizzonti sconfinati puntellati qui e là di cocuzzoli abitati da borghi radi, vere guardie del territorio, raccolti e caldi nelle loro solide costruzioni di pietra che parevano indicarne l’umanità antica, radicata, caparbia.

Del paese in Molise mi piacevano il ritmo lento, la dimensione familiare diffusa e gli incontri affidabili, le feste semplici e partecipate, e mi piaceva vedere gli uomini col tre ruote partire per i campi o per il bosco al mattino, mentre le donne sfaccendavano dentro casa o uscivano veloci coi loro borsellini oblunghi – un regalo dall’America, forse – per fare la spesa al negozio e al forno, riservandosi il tempo per due chiacchiere nel pomeriggio durante il cucito o il ricamo davanti casa; mi attraeva anche la dimensione un po’demodée e decadente del paese, il mistero degli orti intricati di rovi, le stradine ritorte e logore, taluni scorci di case sbriciolate, le campane che frustavano l’aria e l’assolo delle ventun’ore, i pomodori stesi ad essiccare sui terrazzi e il fruscio del gelso e dei fichi nel silenzio assolato. Il ritorno per Milano dopo le vacanze era segnato sempre dalla malinconia, però, giorno dopo giorno, tornavamo alla vita consueta, più difficile e rumorosa, ma piena di cose da fare e persone diverse con cui condividere e bagliori di veicoli di notte e scuola e oratorio e mamma e babbo tra autobus e treni a scappare e la dolcissima spossatezza serale: anche questo mi piaceva e, chissà, mi sarebbe piaciuto a lungo.

Come tutti i figli degli emigranti di ritorno, sono in sostanza apolide e la patria la vagheggio senza raggiungerla da quando avevo tredici anni, perché le mie radici sono state strappate non una, ma due volte; vivo su un terra di confine fascinosa, in quanto plurima e libertaria, e pericolosa, perché vi si rischia di perdere l’equilibrio ad ogni spinta eccedente.

È per questo motivo che ho un rapporto di amore-odio con il Molise, e anche perché in me, come in ognuno di noi, vive un’indole ibrida, quella illuminista, progressista, critica ma aperta al futuro e al cambiamento, e quella romantica, che insegue l’ideale e l’assoluto, che sfugge la realtà, che sconfina all’infinito e si muova tra vagheggiamento e rimpianto, purché tutto non sia circoscritto al “qui ed ora”, o meglio solo al “qui ed ora”.

Quando in me prevale la natura romantica, adoro il Molise, perché coi suoi orizzonti vasti e desolati è una terra che consente il continuo spaesamento, il naufragio di leopardiana memoria, e alimenta l’ immaginazione, le consente di sconfinare, placando il desiderio di fuga, l’esigenza di essere fuori di sé, di figurarsi nel pensiero l’infinito e l’impossibile, un’esigenza che tutti ci accomuna.

Però, non c’è infinito, a partire da quello di Leopardi, che non debba confrontarsi dialetticamente col finito, a rischio di tramutarsi, viceversa, in movimento inerte, da deserto in deserto, da vuoto a vuoto. Ecco, quando in me è preponderante tale ragion critica e il desiderio di prassi, di realtà concreta, il Molise è la terra dello sconforto e della desolazione: mi pare sempre che non ci sia un pieno riconoscimento del tempo in questa regione, una piena attitudine ad aprirsi verso il futuro per superare positivamente i limiti del presente, che tutto sia estremamente retrivo, talora mummificante.

L’ultimo rapporto Istat sul Molise ci deve interrogare, perché demograficamente la nostra regione sta morendo: evidentemente non può vivere di una dimensione solo romantica o appositamente studiata per il turismo di nicchia, di sagra in sagra, di riscoperta di usi e costumi di dubbia memoria in riscoperta ancora; non basta l’infinito sconfinare, che è un non-tempo, quando manca il suo nutrimento, l’esperienza del tempo presente.

Da poco si sono svolte le elezioni regionali: io, come molti miei conterranei, consegnerei ai nostri rappresentanti l’invito a non cristallizzare i molisani fuori dal tempo, a dare invece loro ragioni concrete di esistenza e di speranza, a pensare che ai giovani specialmente bisognerà fornire spazio e opportunità di lavoro, faticose, oneste, concrete: saremmo rei nei confronti dei nostri figli reali o putativi se ci contentassimo di conservare, se avessimo paura di cambiare, cioè di vivere il presente, anche nei nostri suggestivi paesi, senza snaturarli, ma rendendoli abitabili e fluidi di esperienza, ben oltre che nelle festività estive e natalizie.

L’autostrada su cui i miei genitori hanno viaggiato per tornare definitivamente nel Molise è trafficata ora in direzione opposta e la percorrono giovani che probabilmente nel Molise non potranno fare ritorno: dovremmo pensarci e agire di conseguenza, onde evitare che il Molise diventi la Spoon River di un’antologia letteraria ventura. A presto. ☺

 

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