un filo di seta
28 Marzo 2011 Share

un filo di seta

 

“Ho dato da mangiare a mia madre. Mia madre, la mia bambina. Una cucchiaiata di latte e formaggio. Una bambina che mangia, a occhi chiusi, e la mia mano trema per l’emozione”.

Anche le mie mani tremavano e il cuore mi batteva forte mentre leggevo queste parole, in quarta di copertina, del libro “Mia madre, la mia bambina”  di Tahar Ben Jelloun. Mi richiamavano all’improv- viso la cara memoria della mia mamma. La rivedevo, ultranovantenne, risentivo il calore del suo corpo – fragile e minuto come quello di una bimba – quando la stringevo a me nei momenti di panico in cui, riemersa dal mondo dei ricordi, non si riconosceva nel presente e mi veniva incontro a braccia tese chiamandomi “mamma”.

Il libro, acquistato all’istante nella libreria della stazione Termini, mi fece trascorrere il viaggio di ritorno in compagnia della protagonista, Lalla Fatma, alla cui figura mi veniva facile sovrapporre quella della mia mamma. Non c’è nulla di tanto doloroso quanto ripercorrere il progressivo cedimento fisico e mentale di una persona amata. Ben Jelloun mette a nudo tale sofferenza in questo libro che è un canto di devozione filiale.

La storia di Lalla Fatma è un racconto a due voci: l’una della protagonista, ora delirante ora lucida; l’altra di Tahar, l’ultimo dei suoi figli, che vive a Parigi e, appena il lavoro glielo consente, accorre a Tangeri dove vive la madre, accudita da due donne, in una grande casa che va disfacendosi tutt’uno con la vecchia padrona. E quando è lì, seduto accanto al letto della madre, lascia che lei dia libero sfogo ai suoi pensieri: sono lunghi monologhi che lui non osa interrompere se non quando è necessario, nel commovente tentativo di dare un senso, di restituire un ordine a quel profluvio di parole in cui i vivi sono confusi con i morti, il presente col passato, la casa di Tangeri con quella di Fès.

“Fès, la città delle città, la più bella di tutte, la città della civiltà, la città della religione musulmana, della morale e delle famiglie per bene!”.

Nel ritorno al passato sono sempre i ricordi più belli ad affiorare! È a Fès che Lalla Fatma è nata, ha trascorso un’infanzia felice ed è andata tre volte a nozze. “Tre mariti e quattro figli che ha nutrito ed educato. Tre mariti e una sola storia d’amore. Non gliel’ho sentita raccontare, l’ho intuita. Mia madre non parla d’amore. È una parola che usa solo per i suoi figli… Analfabeta, ma non incolta. Ha la sua cultura, le sue convinzioni religiose, i suoi valori e le sue tradizioni”.

Lalla Fatma ha sempre lavorato: artefice raffinata di complicati piatti della cucina marocchina; orgogliosa della sua casa “che teneva come una piccola reggia”; larga di ospitalità verso parenti e amici; sempre serena, “presente al mondo con calma ed eleganza”. Eppure non le sono mancati nella vita i giorni bui, come quando a soli sedici anni è rimasta vedova con una figlia in grembo. Nemmeno la malattia riesce a scalfire l’eleganza interiore che è sempre stata la sua dote naturale. E la fede, profonda, le fa dire: “Non ho paura della morte: la morte è un diritto datoci da Dio per chiudere la nostra vita. Non sta a me discutere la volontà divina… La mia paura non è la morte. La mia paura è di vedere il mio dolore nel vostro sguardo, è di vedervi piegati dal dolore perché io soffro, consumata dall’interno. Questo non lo sopporto. Sono credente, sono sottomessa a Dio e sono felice che mi chiami a sé, ma ho un desiderio: che siate tutti qui e che non soffriate”.  E i figli, tutti, si sono riuniti intorno alla madre morente a riceverne la benedizione: una benedizione che non ha nulla a che fare con la religione, ma che abilita un individuo a camminare nel mondo con sicurezza e fiducia. Nel Marocco ha un valore morale: “è una passione, un filo di seta teso fra due creature, è un amore gratuito, semplice e ovvio”.

Non è stato così per Zilli, la madre di Roland, amico di Tahar. Zilli, un’arzilla signora che ha festeggiato i novant’anni facendo il giro del mondo, viveva a Losanna, giocava a bridge tutti i giorni, leggeva libri e andava a cinema. Di fede tiepida, ma con una gran paura dell’inferno. È morta all’improvviso, mentre in una bella giornata di luglio stava pranzando all’aperto in un ristorante di Losanna. Avvisato dalla polizia mentre stava giocando a ping pong, Roland  è tornato al tavolo di gioco e ha continuato, come se niente fosse, la partita che lo dava vincente.

Lalla Fatma se n’è andata in silenzio. Uno strazio per Tahar guardare quel corpo senz’anima in cui non riconosce più la madre. E si abbandona a fantasie che la vedono giovane e bella, elegante nei suoi caffettani ricamati e i veli di colori vivaci; oppure quando, in piedi davanti alla tavola apparecchiata, dove sono tutti riuniti, li invita felice a mangiare le loro pietanze preferite che lei ha impiegato ore e ore a preparare.

L’amore si nutre di bellezza e i ricordi belli servono a mantenere vivi nel nostro cuore i cari che non ci sono più.

Una storia toccante per chi, come me, ha accompagnato più di una persona amata alla soglia finale ed ha visto quanto possa  essere dolce la morte – “un diritto su di noi, al di sopra di noi, in noi, nella nostra nascita” – se accettata nel silenzio e nell’amore. ☺

terelaba@alice.it

 

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