Insegnare… agli insegnanti?
10 Febbraio 2016
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Insegnare… agli insegnanti?

“Vivere è il mestiere che voglio insegnargli”. Come non lasciarsi mettere in discussione, oggi, da queste sette parole taglienti? È riprendendo questa massima tratta dall’Emilio di Jean-Jacques Rousseau che Edgar Morin avvia il suo “manifesto per cambiare l’educazione”, aggiungendo il terzo tassello alla trilogia dedicata al superamento del sistema educativo attuale. Una lettura che rimandavo dal 2015 e che ha accompagnato sul mio comodino l’entrata del nuovo anno.

Dopo La testa ben fatta e I sette saperi necessari all’educazione del futuro, infatti, Morin riprende i temi di riflessione intorno alle funzioni dell’insegnamento. E ci sorprende di nuovo. Constatando che la nostra educazione offre strumenti per vivere in società (leggere, scrivere e far di conto, per dirla con la tradizione) e, con essi, gli elementi ancora “sfortunatamente separati” che percorrono vie di specializzazione, Morin si interroga (e ci interroga) sulle lacune che il sistema educativo ha rispetto alla preparazione del vivere… e ne trova più d’una.

Insegnare le conoscenze sì, è imprescindibile, ma in quale orizzonte? Quello della stretta complementarità tra saperi tecnico-scientifici e umanistici, anzitutto, per cogliere e proporre quell’unità dei saperi che troppo spesso noi insegnanti tradiamo, affettando i contenuti in tante porzioni separate e non comunicanti.

E poi? Poi procedendo oltre, oltre la nozione, oltre il contenuto disciplinare, per contrastare alcuni rischi fondamentali: la natura stessa dell’insegnare, e dell’insegnare a vivere, è nella preparazione ad affrontare continuamente il rischio di errore, di illusione e di parzialità. L’autore sottolinea come non siano solo gli errori d’ignoranza o strettamente disciplinari ad essere significativi, ma anche e soprattutto gli errori del pensiero dualistico, parziale, disgiunto. Questi diventano addirittura pericolosi, perché conducono all’impossibilità di comprendere le tante sfaccettature della realtà, e limitano la comprensione di se stessi, del mondo circostante, dell’altro. Ecco, dunque, la necessità di offrire strumenti – primariamente di pensiero – che permettano alla complessità del reale di essere accolta, e portino ad affrontare le contraddizioni senza evitarle, superando le “alternative giudicate insuperabili”.

Senza ricette, ma indagando la complessità fino a trovare interconnessioni, fino a legare i saperi e i pensieri… per insegnare, appunto, a “vivere”, ossia a dare compimento liberamente e consapevolmente alle proprie inclinazioni, talenti e attitudini, a “stare bene” nel mondo, a essere pienamente se stessi nella propria realtà, e in sintonia con la propria interiorità e con gli altri.

Tendere al “ben-essere”, dunque, a patto di superare la concezione del termine così come genericamente inteso (che lo vede identificato con il molto avere) per recuperare una riflessione intorno all’ “arte di vivere”, di dare un senso a ciò che facciamo o che siamo, in un orizzonte di valori e di ideali che realizzano pienamente l’uomo.

Potrebbe (si domanda l’autore a questo punto, da filosofo) la pratica della saggezza, ovvero la filosofia, con il suo problematizzare tutto ciò che interessa l’ esperienza umana, essere un percorso che offre strumenti finalizzati a costruire un autentico saper ben-vivere? La filosofia, nella misura in cui cessa di essere considerata esclusivamente disciplina, può essere “motrice e guida nell’insegnare a vivere”, al fine di suscitare dialogo e dibattito con l’altro e con se stessi, al fine di raggiungere l’autonomia e la libertà della mente che rende possibile percorsi di comprensione, sia intellettuale che umana, costantemente minacciati dal frastuono che spesso investe la comunicazione. L’autentica comprensione umana permetterebbe di riconoscere l’altro al contempo simile a me, per la condivisione della medesima umanità, e altro da me riconosciuto nel suo essere unico al mondo, irripetibile nella storia. Ecco il senso del ben-vivere, e dell’insegnare a farlo.

La proposta dell’autore è di insegnare “un’etica del dialogo” sia fra gli allievi, sia, sottolinea a più riprese, tra i\le docenti, tentando di trasformare la violenza in conflitto, in dialogo, “per trovare il circolo virtuoso del riconoscimento reciproco”, e attuare una vera resistenza che superi l’incomprensione, quotidiana o planetaria che sia, che genera a livello personale o microsociale i malintesi, fino a scatenare i disprezzi, gli odi, le violenze e le guerre.

Alla scuola, e con essa alla società educante, va il richiamo alla responsabilità di “fornire il viatico benefico per l’avventura della vita di ciascuno”, di individuare modalità di relazioni tra individuo e società, per costruire una comunità planetaria e una cittadinanza… terrestre.

Questa conclusione ci riporta alle due citazioni che precedono il testo, complementari, inseparabilmente legate tra loro: “Quale pianeta lasceremo ai nostri figli?” Si chiede Hans Jonas e di indiretto rimando Jaime Semprun pone il quesito: “A quali figli lasceremo il mondo?” Lasciandosi sollecitare da queste provocazioni, Morin richiama all’assunzione di presa in carico del mondo e della civiltà da un lato, e dall’altro alla responsabilità educativa nei confronti delle nuove generazioni.

Aggiungerei una terza domanda, senza commento, su cui riflettere alla luce degli stimoli dell’autore: quale scuola stiamo proponendo ai nostri figli? E una quarta: quale etica incarna l’attuale classe docente? E una quinta: a quali dirigenti, a quali credibili professionalità, stiamo affidando le redini del sistema scolastico italiano?

Morin, forse, più che a una riforma (fosse pure rivoluzionaria) ci esorta “solo” ad un impegnativo, spietato esame di coscienza.☺

 

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