Il titolo del libro (Franco Pollutri, “Le stagioni di un vagabondo”, Edizioni GME, Medimont S.r.l., Bologna, marzo 2007) potrebbe suggerire che si tratti di racconti autobiografici: in parte lo sono; l’autore nella presentazione ci tiene a sottolineare che le storie de “Le stagioni di un vagabondo” non sono narrazioni specificatamente autobiografiche ma sono testimonianze ed esperienze che possono tranquillamente fare parte della vita di ciascuno, perché l’uomo in genere trascorre momenti di felicità o di disordine spirituale che si rassomigliano, se non nelle particolarità individuali, sicuramente nelle linee essenziali alla biografia di ognuno.
Quando ci troviamo di fronte ad un libro, ci chiediamo sempre cosa esso rappresenti e cosa voglia suggerire al lettore; la stessa domanda si pone per il libro di Franco Pollutri, docente e scrittore vastese.
Le “stagioni” sono quelle porzioni di tempo di un anno che cominciamo a conoscere fin da piccoli, quando la fantasia e la gioia tipiche del bambino e dell’adolescente cominciano a prendere consistenza con la consapevolezza dello scorrere del tempo, scandito dalle stagioni e queste dagli anni. L’estate con il mare, l’inverno con la neve sono indubbiamente le stagioni più amate nell’infanzia; la primavera con lo sbocciare dei fiori e della natura in genere e l’autunno con il cadere delle foglie dagli alberi e con la modificazione dei colori suggeriscono malinconia e tristezza che sanciscono la conclusione dolorosa di un amore o di una esperienza di vita più profonda. Le stagioni, dunque, sono un segmento di vita che fugge via, veloce e spesso senza essere vissuta interamente.
Le sofferenze di questo momento e la sensazione della caducità e dello scorrere veloce e inarrestabile del tempo, non sempre ben vissuto, hanno riempito e continuano a riempire le pagine degli artisti e dei poeti in particolare. Il nostro massimo poeta di Recanati ci aiuta a comprendere tutto questo tragico cammino della vita dell’umanità e della storia.
La figura, poi, del “vagabondo” è legata ad una miriade di immagini e di sensazioni che cerchiamo in parte soltanto di dipanare e di indicare nelle linee essenziali, in quanto l’argomento è molto vasto e non attiene soltanto alla letteratura o alla lettura sociologica della produzione artistica (cosa di cui ci stiamo occupando e che riguarda specificatamente il lavoro di chi sta scrivendo), ma anche ad una serie ampia di discipline che vanno dalla psicologia alla medicina, dall’economia alla lectio tout court degli accadimenti storici, che possono determinare la vicenda dolorosa dello sradicamento, che si applica sia ad un singolo individuo, sia a tutto intero un popolo, come le migrazioni e gli spostamenti epocali di popolazioni non necessariamente nomadiche suggeriscono.
Partiamo dalla esperienza diretta dell’autore nei suoi racconti; prendiamone a esempio solo due, “La paglia e il cerino” e “Ti devo chiedere scusa”.
In “La paglia e il cerino” Maria, il personaggio femminile dominante, esprime il suo senso di smarrimento e di delusione pungente per un amore perduto e svanito gridando al vento “perché?” e questo suo urlo si sperde nel nulla, senza che alcuno lo ascolti e possa darle un aiuto; di qui, il senso chiaro dello smarrimento che si stampa nella sensazione di un dolore autenticamente fisico che fa male, rende esangui e perciò incapaci di reagire.
Oppure in “Ti devo chiedere scusa” Lupo Grigio (che raffigura chiaramente l’autore) vagola per la montagna e per i suoi sentieri impervi e pericolosi con un senso di profonda amarezza interiore determinata dalla noia, dalla solitudine che stanno caratterizzando la sua vita in quel particolare e delicato momento e che, angosciandolo, rischiano di paralizzarlo; questa cosa in effetti non succede per Lupo Grigio, in quanto amica gli si mostra la Montagna da lui conosciuta e già da lungo tempo attraversata e vissuta, per cui l’autore nella Montagna stessa pare indicarci fin dall’inizio delle sue narrazioni la possibilità di una svolta positiva allo smarrimento che determina il suo vagabondaggio fisico e spirituale.
C’è però un altro elemento che gioca a favore della soluzione positiva dell’esperienza del vagabondaggio, così come l’ha vissuta e la racconta l’autore.
Infatti, nei racconti “Il professore di ginnastica”, “Il lago” e “Il vagabondo”, l’autore dipinge tre personaggi (tre inquadrature diverse dello stesso soggetto) che in sé hanno le motivazioni e gli strumenti per superare la terribile fase che il vagabondare fa vivere, ossia la prestanza e l’agilità fisica sconfinanti nella sensualità che il professore naturalmente promana da sé e che spesso è specimen ricorrente nella professione docente, oppure l’immagine che l’autore dà di Andrea e di Luca, protagonisti degli altri due racconti sopracitati che sono descritti e raffigurati come “guerrieri spartani”, che in sé (e la storia ce lo racconta) hanno la capacità di adattamento alla sofferenza e anche alla solitudine. Il guerriero spartano, come il vagabondo dell’autore, sono le due facce della stessa medaglia e ciò naturalmente è parte integrante della narrazione, così come l’ha concepita lo scrittore di Vasto.
Infatti, la “stagione” raccoglie dentro di sé le fasi della vita e genera ragionevoli certezze per continuare a vivere secondo quanto la coscienza e la cultura personali indicano; il “vagabondo” – prestante fisicamente, dotato di capacità di sopportazione della sofferenza e capace di “rianimarsi”, rappresenta, inoltre, la continua ricerca di sé e l’individuazione di rinnovate ragioni dell’esistenza. La ricerca si conclude nel momento in cui l’individuo ha la sensazione di essere al traguardo che si è prefissato attraverso il vagabondare stesso: Orso muore sulla vetta del vecchio sasso.
La vetta di “pasco- liana” memoria (“…più su, più su…”) rappresenta la conclusione di una drammatica fase dell’esistenza dell’uomo.
Orso muore per motivazioni che sarebbe troppo facile indagare con gli strumenti della psicanalisi: egli muore per farsi amare di più dal lettore? (grazie ad un finale che ha il sapore del feuilleton più che delle conclusioni trasgressive dei romanzi di Keruac); per espiare lo strisciante senso di colpa che il suo ruolo di capo branco esige? Oppure è la sua antica e adolescenziale educazione di matrice cristiana a chiedere all’autore questo olocausto?
Ci piace immaginare che Orso muoia per congedarsi da noi e dalla penna commossa dello scrittore vastese… ☺
bar.novelli@micso.net
Il titolo del libro (Franco Pollutri, “Le stagioni di un vagabondo”, Edizioni GME, Medimont S.r.l., Bologna, marzo 2007) potrebbe suggerire che si tratti di racconti autobiografici: in parte lo sono; l’autore nella presentazione ci tiene a sottolineare che le storie de “Le stagioni di un vagabondo” non sono narrazioni specificatamente autobiografiche ma sono testimonianze ed esperienze che possono tranquillamente fare parte della vita di ciascuno, perché l’uomo in genere trascorre momenti di felicità o di disordine spirituale che si rassomigliano, se non nelle particolarità individuali, sicuramente nelle linee essenziali alla biografia di ognuno.
Quando ci troviamo di fronte ad un libro, ci chiediamo sempre cosa esso rappresenti e cosa voglia suggerire al lettore; la stessa domanda si pone per il libro di Franco Pollutri, docente e scrittore vastese.
Le “stagioni” sono quelle porzioni di tempo di un anno che cominciamo a conoscere fin da piccoli, quando la fantasia e la gioia tipiche del bambino e dell’adolescente cominciano a prendere consistenza con la consapevolezza dello scorrere del tempo, scandito dalle stagioni e queste dagli anni. L’estate con il mare, l’inverno con la neve sono indubbiamente le stagioni più amate nell’infanzia; la primavera con lo sbocciare dei fiori e della natura in genere e l’autunno con il cadere delle foglie dagli alberi e con la modificazione dei colori suggeriscono malinconia e tristezza che sanciscono la conclusione dolorosa di un amore o di una esperienza di vita più profonda. Le stagioni, dunque, sono un segmento di vita che fugge via, veloce e spesso senza essere vissuta interamente.
Le sofferenze di questo momento e la sensazione della caducità e dello scorrere veloce e inarrestabile del tempo, non sempre ben vissuto, hanno riempito e continuano a riempire le pagine degli artisti e dei poeti in particolare. Il nostro massimo poeta di Recanati ci aiuta a comprendere tutto questo tragico cammino della vita dell’umanità e della storia.
La figura, poi, del “vagabondo” è legata ad una miriade di immagini e di sensazioni che cerchiamo in parte soltanto di dipanare e di indicare nelle linee essenziali, in quanto l’argomento è molto vasto e non attiene soltanto alla letteratura o alla lettura sociologica della produzione artistica (cosa di cui ci stiamo occupando e che riguarda specificatamente il lavoro di chi sta scrivendo), ma anche ad una serie ampia di discipline che vanno dalla psicologia alla medicina, dall’economia alla lectio tout court degli accadimenti storici, che possono determinare la vicenda dolorosa dello sradicamento, che si applica sia ad un singolo individuo, sia a tutto intero un popolo, come le migrazioni e gli spostamenti epocali di popolazioni non necessariamente nomadiche suggeriscono.
Partiamo dalla esperienza diretta dell’autore nei suoi racconti; prendiamone a esempio solo due, “La paglia e il cerino” e “Ti devo chiedere scusa”.
In “La paglia e il cerino” Maria, il personaggio femminile dominante, esprime il suo senso di smarrimento e di delusione pungente per un amore perduto e svanito gridando al vento “perché?” e questo suo urlo si sperde nel nulla, senza che alcuno lo ascolti e possa darle un aiuto; di qui, il senso chiaro dello smarrimento che si stampa nella sensazione di un dolore autenticamente fisico che fa male, rende esangui e perciò incapaci di reagire.
Oppure in “Ti devo chiedere scusa” Lupo Grigio (che raffigura chiaramente l’autore) vagola per la montagna e per i suoi sentieri impervi e pericolosi con un senso di profonda amarezza interiore determinata dalla noia, dalla solitudine che stanno caratterizzando la sua vita in quel particolare e delicato momento e che, angosciandolo, rischiano di paralizzarlo; questa cosa in effetti non succede per Lupo Grigio, in quanto amica gli si mostra la Montagna da lui conosciuta e già da lungo tempo attraversata e vissuta, per cui l’autore nella Montagna stessa pare indicarci fin dall’inizio delle sue narrazioni la possibilità di una svolta positiva allo smarrimento che determina il suo vagabondaggio fisico e spirituale.
C’è però un altro elemento che gioca a favore della soluzione positiva dell’esperienza del vagabondaggio, così come l’ha vissuta e la racconta l’autore.
Infatti, nei racconti “Il professore di ginnastica”, “Il lago” e “Il vagabondo”, l’autore dipinge tre personaggi (tre inquadrature diverse dello stesso soggetto) che in sé hanno le motivazioni e gli strumenti per superare la terribile fase che il vagabondare fa vivere, ossia la prestanza e l’agilità fisica sconfinanti nella sensualità che il professore naturalmente promana da sé e che spesso è specimen ricorrente nella professione docente, oppure l’immagine che l’autore dà di Andrea e di Luca, protagonisti degli altri due racconti sopracitati che sono descritti e raffigurati come “guerrieri spartani”, che in sé (e la storia ce lo racconta) hanno la capacità di adattamento alla sofferenza e anche alla solitudine. Il guerriero spartano, come il vagabondo dell’autore, sono le due facce della stessa medaglia e ciò naturalmente è parte integrante della narrazione, così come l’ha concepita lo scrittore di Vasto.
Infatti, la “stagione” raccoglie dentro di sé le fasi della vita e genera ragionevoli certezze per continuare a vivere secondo quanto la coscienza e la cultura personali indicano; il “vagabondo” – prestante fisicamente, dotato di capacità di sopportazione della sofferenza e capace di “rianimarsi”, rappresenta, inoltre, la continua ricerca di sé e l’individuazione di rinnovate ragioni dell’esistenza. La ricerca si conclude nel momento in cui l’individuo ha la sensazione di essere al traguardo che si è prefissato attraverso il vagabondare stesso: Orso muore sulla vetta del vecchio sasso.
La vetta di “pasco- liana” memoria (“…più su, più su…”) rappresenta la conclusione di una drammatica fase dell’esistenza dell’uomo.
Orso muore per motivazioni che sarebbe troppo facile indagare con gli strumenti della psicanalisi: egli muore per farsi amare di più dal lettore? (grazie ad un finale che ha il sapore del feuilleton più che delle conclusioni trasgressive dei romanzi di Keruac); per espiare lo strisciante senso di colpa che il suo ruolo di capo branco esige? Oppure è la sua antica e adolescenziale educazione di matrice cristiana a chiedere all’autore questo olocausto?
Ci piace immaginare che Orso muoia per congedarsi da noi e dalla penna commossa dello scrittore vastese… ☺
Il titolo del libro (Franco Pollutri, “Le stagioni di un vagabondo”, Edizioni GME, Medimont S.r.l., Bologna, marzo 2007) potrebbe suggerire che si tratti di racconti autobiografici: in parte lo sono; l’autore nella presentazione ci tiene a sottolineare che le storie de “Le stagioni di un vagabondo” non sono narrazioni specificatamente autobiografiche ma sono testimonianze ed esperienze che possono tranquillamente fare parte della vita di ciascuno, perché l’uomo in genere trascorre momenti di felicità o di disordine spirituale che si rassomigliano, se non nelle particolarità individuali, sicuramente nelle linee essenziali alla biografia di ognuno.
Quando ci troviamo di fronte ad un libro, ci chiediamo sempre cosa esso rappresenti e cosa voglia suggerire al lettore; la stessa domanda si pone per il libro di Franco Pollutri, docente e scrittore vastese.
Le “stagioni” sono quelle porzioni di tempo di un anno che cominciamo a conoscere fin da piccoli, quando la fantasia e la gioia tipiche del bambino e dell’adolescente cominciano a prendere consistenza con la consapevolezza dello scorrere del tempo, scandito dalle stagioni e queste dagli anni. L’estate con il mare, l’inverno con la neve sono indubbiamente le stagioni più amate nell’infanzia; la primavera con lo sbocciare dei fiori e della natura in genere e l’autunno con il cadere delle foglie dagli alberi e con la modificazione dei colori suggeriscono malinconia e tristezza che sanciscono la conclusione dolorosa di un amore o di una esperienza di vita più profonda. Le stagioni, dunque, sono un segmento di vita che fugge via, veloce e spesso senza essere vissuta interamente.
Le sofferenze di questo momento e la sensazione della caducità e dello scorrere veloce e inarrestabile del tempo, non sempre ben vissuto, hanno riempito e continuano a riempire le pagine degli artisti e dei poeti in particolare. Il nostro massimo poeta di Recanati ci aiuta a comprendere tutto questo tragico cammino della vita dell’umanità e della storia.
La figura, poi, del “vagabondo” è legata ad una miriade di immagini e di sensazioni che cerchiamo in parte soltanto di dipanare e di indicare nelle linee essenziali, in quanto l’argomento è molto vasto e non attiene soltanto alla letteratura o alla lettura sociologica della produzione artistica (cosa di cui ci stiamo occupando e che riguarda specificatamente il lavoro di chi sta scrivendo), ma anche ad una serie ampia di discipline che vanno dalla psicologia alla medicina, dall’economia alla lectio tout court degli accadimenti storici, che possono determinare la vicenda dolorosa dello sradicamento, che si applica sia ad un singolo individuo, sia a tutto intero un popolo, come le migrazioni e gli spostamenti epocali di popolazioni non necessariamente nomadiche suggeriscono.
Partiamo dalla esperienza diretta dell’autore nei suoi racconti; prendiamone a esempio solo due, “La paglia e il cerino” e “Ti devo chiedere scusa”.
In “La paglia e il cerino” Maria, il personaggio femminile dominante, esprime il suo senso di smarrimento e di delusione pungente per un amore perduto e svanito gridando al vento “perché?” e questo suo urlo si sperde nel nulla, senza che alcuno lo ascolti e possa darle un aiuto; di qui, il senso chiaro dello smarrimento che si stampa nella sensazione di un dolore autenticamente fisico che fa male, rende esangui e perciò incapaci di reagire.
Oppure in “Ti devo chiedere scusa” Lupo Grigio (che raffigura chiaramente l’autore) vagola per la montagna e per i suoi sentieri impervi e pericolosi con un senso di profonda amarezza interiore determinata dalla noia, dalla solitudine che stanno caratterizzando la sua vita in quel particolare e delicato momento e che, angosciandolo, rischiano di paralizzarlo; questa cosa in effetti non succede per Lupo Grigio, in quanto amica gli si mostra la Montagna da lui conosciuta e già da lungo tempo attraversata e vissuta, per cui l’autore nella Montagna stessa pare indicarci fin dall’inizio delle sue narrazioni la possibilità di una svolta positiva allo smarrimento che determina il suo vagabondaggio fisico e spirituale.
C’è però un altro elemento che gioca a favore della soluzione positiva dell’esperienza del vagabondaggio, così come l’ha vissuta e la racconta l’autore.
Infatti, nei racconti “Il professore di ginnastica”, “Il lago” e “Il vagabondo”, l’autore dipinge tre personaggi (tre inquadrature diverse dello stesso soggetto) che in sé hanno le motivazioni e gli strumenti per superare la terribile fase che il vagabondare fa vivere, ossia la prestanza e l’agilità fisica sconfinanti nella sensualità che il professore naturalmente promana da sé e che spesso è specimen ricorrente nella professione docente, oppure l’immagine che l’autore dà di Andrea e di Luca, protagonisti degli altri due racconti sopracitati che sono descritti e raffigurati come “guerrieri spartani”, che in sé (e la storia ce lo racconta) hanno la capacità di adattamento alla sofferenza e anche alla solitudine. Il guerriero spartano, come il vagabondo dell’autore, sono le due facce della stessa medaglia e ciò naturalmente è parte integrante della narrazione, così come l’ha concepita lo scrittore di Vasto.
Infatti, la “stagione” raccoglie dentro di sé le fasi della vita e genera ragionevoli certezze per continuare a vivere secondo quanto la coscienza e la cultura personali indicano; il “vagabondo” – prestante fisicamente, dotato di capacità di sopportazione della sofferenza e capace di “rianimarsi”, rappresenta, inoltre, la continua ricerca di sé e l’individuazione di rinnovate ragioni dell’esistenza. La ricerca si conclude nel momento in cui l’individuo ha la sensazione di essere al traguardo che si è prefissato attraverso il vagabondare stesso: Orso muore sulla vetta del vecchio sasso.
La vetta di “pasco- liana” memoria (“…più su, più su…”) rappresenta la conclusione di una drammatica fase dell’esistenza dell’uomo.
Orso muore per motivazioni che sarebbe troppo facile indagare con gli strumenti della psicanalisi: egli muore per farsi amare di più dal lettore? (grazie ad un finale che ha il sapore del feuilleton più che delle conclusioni trasgressive dei romanzi di Keruac); per espiare lo strisciante senso di colpa che il suo ruolo di capo branco esige? Oppure è la sua antica e adolescenziale educazione di matrice cristiana a chiedere all’autore questo olocausto?
Ci piace immaginare che Orso muoia per congedarsi da noi e dalla penna commossa dello scrittore vastese… ☺
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.