Radici
21 Luglio 2019
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Radici

“Se, se… ‘n créd cha…” sentenziò don Ciccio Ricci, medico condotto al Piano San Leonardo, quando mi vide. Mio padre era corso a chiamarlo quando, al mattino, mamma, al settimo mese di gravidanza, si era sentita male. Il dottore era uscito per una visita, nel frattempo papà aveva incontrato la mia nonna materna, Marietta, che si era precipitata a casa nostra, ma era arrivata a cose fatte e aveva provveduto, dall’alto della sua esperienza dei dieci figli avuti, alle prime necessità. “Mannagg a te e a cchi t’ha ‘ttaccat u m-ji-q-l!” era, solo per me, il suo rimprovero scherzoso e speciale. Il mio scarso chilo e ottocento grammi, il latte materno e la spessa coperta di lana-incubatrice mi concessero di superare i mesi e gli anni seguenti, nonostante l’avversa previsione del dottore. Nonna Marietta parlava latino: diceva cra e pscrà per dire domani e dopodomani. Ne avevamo parlato con Pinuccio e Orfeo: dovremmo raccogliere i modi di dire, registrare, trascrivere. Per l’archeologia culturale c’è sempre tempo… e poi, come per tante cose, non c’è né più.

Don Ciccio era il proprietario della masseria, i nonni coi loro dieci figli i mezzadri. Sino al primo dopoguerra il dottore andava, da Larino, ai congressi di medicina a Parma e a Bologna, a cavallo. Era repubblicano, aveva messo i busti di Mazzini e Garibaldi in due nicchie ai lati della porta. I fascisti lo avevano tollerato. Mia mamma odiava la polenta. C’era il duce che passava da Termoli e i fascisti, sul treno da Camp-vuasc, salivano ad ogni stazione più infervorati. Nonno Peppe non era mai andato ai sabati in piazza e non possedeva una camicia nera. Dal treno furono lanciate precise fiaccole. Tutto il grano, prossimo alla mietitura, andò bruciato. Per due anni si mangiò solo fame e polenta, spartendo il granoturco con gli animali. Il nonno aveva seppellito alcuni libri d’idee socialiste sotto la soglia di casa. Lo aveva fatto dopo qualche brutta avvisaglia. Anche “zizì” ‘Nton-jh d Sammartìn, paese natale anche dei nonni e dei figli più grandi, insieme a diversi socialisti del circolo operai e contadini, ne videro.

Aveva nevicato tutta la notte. Più di un metro. Papà era uscito dalla finestra, e poi a spalare per liberare la porta. I genitori usciti per una commissione veloce, mio fratello a scuola, resto solo. A cinque anni, nel ‘54 si poteva. Il fuoco del camino si affievolisce, fa freddo. Arriva zio Nicolino, giovanotto dai capelli ricciolini e, forse, baffetti. Per riscaldarci ci rincorriamo intorno al tavolo. Un’allegria e un ricordo bellissimi.

Succede una sera, fino ad un istante prima serena. Papà mette un piede in fallo, cade dalle scale, poche ore e muore. Nessuna possibilità di lavoro. Mio fratello maggiore parte, pochi mesi e siamo a Torino a fare i terroni. L’insieme di due traumi non è dei migliori. Fra i miei compagni di prima media nel quartiere borghese i nipoti di due personaggi presenti nei libri di storia. La prof. di lettere e latino, una giovane siciliana che parlava come Montalbano, moglie di un alto ufficiale, odiava senza ritegno i meridionali che stavano rovinando la splendida capitale sabauda. Arrivava tutte le mattine con il millecento verde targato EI, con il soldatino autista che correva ad aprirle la portiera e le faceva il saluto. Mi boccia, e io, che fino ad allora ero stato studente con buoni risultati, sento questo proprio come una punizione di classe. Mi consiglia vivamente l’avviamento industriale, scuole pratiche che mi permettano di andare a fare l’operaio in Fiat, altro che liceo. Così con la licenza d’avviamento, a quindici anni inizio a lavorare, ma in Fiat non sono mai andato.

Zio Nicolino viene da noi a Torino, lavora nei cantieri. Non appena, in tre mesi, riesce a prendere la specializzazione in carpenteria in legno e ferro torna in paese. Il geometra capo cantiere è dispiaciuto, lo zio è in gamba, però capisce e lo promuove. La sera suonava il campanello. Se, al quinto piano senza ascensore non arrivava nessuno, sapevamo che era lui. Si sentiva la suola, con sotto i granelli di sabbia del cantiere, strisciare sui gradini. Quella fatica e quel suono sono rimasti nella mia coscienza, esemplari. Il senso della famiglia, del dovere, del rispetto del lavoro, del comportamento integerrimo, ancor prima dei diritti e del rispetto di sé, nascono da queste prime esperienze. Un imprinting ineliminabile.

Sono questi alcuni degli avvenimenti formativi delle mie più intime convinzioni, delle scelte politiche e morali che hanno caratterizzato i successivi cinquanta, sessant’anni. Qualche volta ho pensato di venire a Larino e sgridarli, tutti quelli della famiglia, per l’esempio morale e i comportamenti perdenti, che fanno sempre più a pugni con l’andazzo corrente, con il sistema di valori del mercato, con l’arroganza e la supponenza becera e ignorante.

Sessant’anni fra i pedemontani (moglie, e, stranamente, tutti gli amici piemontesi doc) mi hanno reso apolide. Non so se sono ancora Frentano, ma quando mi chiedono le origini dico di esserlo. È un fatto di superiorità culturale: questi signori ai piedi dei monti (bellissimi e che amo) non hanno neppure una parola per dire “topì”.

Mi è parso che l’incontro casuale, o forse no, con la fonte, il ritrovarmi a scrivere sulle stesse pagine con Giuseppe (per me è sempre Pinuccio) possa essere un modo per rinsaldare il legame morale con un mondo che, immagino, è da tempo in disfacimento, corrotto, ma che ha ancora qualche punto fermo nelle persone che meglio di me condividono questa piacevole presenza mensile, e con chi questa attività ha fondato e sostiene.☺

 

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