lampade da accendere  di Gabriella de Lisio
29 Agosto 2011 Share

lampade da accendere di Gabriella de Lisio

 

“E’ stato calcolato che il peso delle formiche esistenti sulla Terra è pari a venti milioni di volte quello di tutti i vertebrati. Così lo scultore ottocentesco Amos Pelicorti, detto il Mirmidone, rispondeva a coloro che gli chiedevano perché componesse le sue opere in mollica di pane”.  

È l’apertura, geniale, di un romanzo che – come tutti i classici – non ha data di scadenza e, anzi, si è rivelato tristemente profetico circa le sorti del Bel Paese: La Compagnia dei Celestini, di Stefano Benni, primi anni ’90, è una satira variopinta e fantasiosa che fa letteralmente a pezzi la nostra società contemporanea senza dimenticare nessuno (dai preti ai giornalisti, dai politici ai fast-food, dalla tv alle mille debolezze della gente comune) e, soprattutto, senza dimenticare il sorriso, il tocco leggero (e talvolta dissacrante, ma sempre azzeccato e necessario) dell’ironia.

Tralasciando le pieghe della trama – che in questa sede non ci interessano poiché non state leggendo una recensione – ci piace, qui, “utilizzare” Amos Pelicorti, uno dei personaggi del romanzo che restano dietro le quinte della storia ma ne costituiscono il filo invisibile della trama e del messaggio, per fare un augurio di buon anno scolastico a tutti quegli insegnanti che, l’estate alle spalle, si apprestano a tornare in aula. Perché proprio lui? Perché, come lui, ciascuno di noi acquisti o recuperi…

… la semplicità!

… la saggezza di scolpire il pane come fosse marmo, o legno, per i propri ragazzi: tutto ha un valore nell’apprendimento, anche le briciole più piccole, ogni curiosità, ogni notizia, ogni contenuto può diventare una finestra spalancata sulla crescita, un passo verso la formazione della persona, e bisogna saper valorizzare ogni stimolo, ogni domanda, soprattutto ogni difficoltà;

… il coraggio di inventare ogni giorno il proprio mestiere con creatività e fantasia, anche se con pochi mezzi, sfidando convenzioni e stereotipi,  senza stancarsi di tirar fuori un piccolo miracolo da quello che agli occhi di molti sembra il nulla, e di chiedersi: dove ho sbagliato? Cosa posso fare di più?

… la memoria e la consapevolezza del proprio ruolo: troppo spesso dimentichiamo che il nostro mestiere è un servizio ai più “piccoli” – che abbiano 6 o 18 anni poco importa -, e che va concepito come uno sforzo costante verso il soddisfacimento dei loro bisogni, verso la ricerca di linguaggi e metodi adeguati, che vadano loro incontro e si facciano davvero pane per i loro denti. Spezzare il pane per loro – senza la pretesa di evocare immagini evangeliche! – sia, al principio di quest’anno scolastico, lo slogan da mettere nel registro: quante liti, quante rivalità, quanti colpi bassi – che compromettono il lavoro di squadra e l’efficacia di qualsiasi metodo didattico – potremmo evitare se, al posto di litigare fra noi per chi deve primeggiare, per chi è il più gettonato, o il più severo, o il più moderno, o il più psicologo, o il più “amicone”, ci ricordassimo di lavorare con semplicità e dedizione per chi ci sta di fronte nei banchi, ogni mattina. Nelle mani di un insegnante innamorato delle sue formiche, tutto può diventare cibo per loro, e tutto deve essere fatto solo per loro, in barba alla vanagloria di tanti e alla ricerca affannosa della propria personale soddisfazione: darsi in pasto, o dare in pasto il proprio lavoro ai ragazzi. Ecco, questo sì che mi piace pensare sia possibile;

… la pazienza: uno scultore deve averne in abbondanza per attendere che, dalle sue mani, venga fuori la forma armoniosa, la curva giusta, l’angolo cercato, la superficie levigata in un certo modo o lasciata, volutamente, più grezza. Se è vero che i ragazzi non sono vasi da riempire o da modellare secondo il proprio gusto (per carità!), ma piuttosto semi da innaffiare o – come dice don Mazzi – “lampade da accendere”, è altrettanto vero che i semi gettati, l’argilla sulla quale le nostre mani in un modo o nell’altro hanno impresso un’orma e una direzione di crescita, prenderà il suo volto solo molto tempo dopo. I frutti del nostro mestiere, molto spesso, non li cogliamo noi ma la vita stessa, quando in futuro spunterà quella polpa buona che avrà avuto bisogno di lunghe stagioni per maturare, e alla quale noi avremo dato, nel nostro piccolo, un contributo, una spruzzatina d’acqua, una zappettata alle zolle.

Allora, viva le formiche, viva la mollica e buon, sentimentale, anno scolastico a tutti i semplici, imperfetti, innamorati artisti di pane.☺

gadelis@libero.it

 

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