acqua scippata
9 Giugno 2010 Share

acqua scippata

 

 

Dalla nostra modesta rubrica sull’educazione (che ha un’attenzione particolare per quella ai diritti umani e ai nuovi stili di vita), impossibile non strizzare l’occhiolino ad un nuovo consiglio per gli acquisti. È ora di aggiungere un posto a tavola nella nostra libreria. Mentre sono ormai partiti  i banchetti per la raccolta-firme a sostegno del referendum abrogativo dell’art. 15 della legge 166/2009, conviene informarsi attraverso canali documentati e attendibili, rompendo così con letture personali l’assordante silenzio dei media: L’acqua è una merce. Perché è giusto e possibile arginare la privatizzazione di Luca Martinelli (Altreconomia, euro 10), freschissimo di stampa, in meno di cento pagine ripercorre la storia della privatizzazione dell’acqua dal 1994 sino ad oggi, con un linguaggio chiaro e preciso, ma che sa restare divulgativo e alla portata di chi addetto ai lavori non è. Ne riportiamo qui uno stralcio dell’introduzione, che ci sembra un ottimo invito alla lettura e una panoramica essenziale su quanto ogni cittadino ha il diritto dovere di sapere sull’“oro-blu” e sul destino che potrebbe avere di qui a poco più di un anno. Sempre che la mobilitazione popolare, come ci auguriamo, non vinca questa battaglia per un diritto umano. Già, acqua: bene comune dell’umanità.

“In Italia l’acqua è una merce. Chi non ci crede, può leggere il testo dell’ultima legge di riforma dei servizi pubblici, la numero 166 del novembre 2009. Per capirne il contenuto, però, basta riflettere sul titolo dell’articolo 15: “Adegua- mento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica”. Il corsivo è nostro: tra questi servizi ci sono infatti anche i nostri acquedotti. Per il governo che ha approvato la riforma – e per l’opposizione che nulla ha fatto per fermarlo – acqua potabile e fognature sono poco più di un mercato appetibile, il cosiddetto “oro blu” cui guardano con interesse banche d’affari, fondi d’investi- mento e imprese multinazionali; l’acqua potabile perde lo status di diritto di ogni cittadino e di “bene comune”, difeso con ostinazione da milioni di persone in tutto il mondo.

D’ora in poi saranno logiche di profitto e meccanismi di mercato a decidere chi, e a quali condizioni, potrà accedere al servizio.

Politici ed economisti hanno invano tentato di smorzare la portata “rivoluzionaria” della riforma, spiegando che privatizza “solo” le società che gestiscono il servizio idrico, ma non l’acqua. È una falsa giustificazione: nessuno potrà mai privatizzare l’acqua di pozzi, sorgenti e fiumi, che è un bene demaniale e per sua natura inalienabile.

L’acqua è e resterà pubblica, ma il nodo del problema è che gli enti locali perderanno il controllo delle società che la distribuiscono. Perché cedere il controllo della sua distribuzione, equivale a privatizzare l’acqua. Tra chi ha sparso fumo c’è anche il ministro delle Politiche comunitarie Andrea Ronchi, che in un intervento del 19 novembre 2009 su Milano Finanza ha scritto: «In queste ore sono risuonate grida, in larga parte strumentali, che hanno tentato di veicolare il falso messaggio della privatizzazione dell’acqua, confondendo il concetto di proprietà con quello di gestione». Quello “confuso”, però, è il ministro, perché la proprietà pubblica salva solo la forma, mentre la gestione – ben più sostanziale – va al privato.

Lo strumento prescelto per rendere fattiva la riforma è la “gara”, un bando per la concessione del servizio: secondo il legislatore sarebbe la panacea in grado di risolvere ogni problema. Il privato prenderà così il posto dei gestori pubblici, che oggi sono una maggioranza, e che senza alcun riscontro oggettivo, basato sui dati o sui conti, vengono considerati inefficienti. Inefficienti per decreto. Quella che si realizza, così, è una mistificazione della realtà, un quadro surrealista dipinto da chi – per zittire le voci critiche – vorrebbe che i cittadini si svegliassero solo nel 2012, quando tutto sarà già in mano ai privati, le bollette inizieranno a gonfiarsi, peggiorerà l’efficienza dei servizi e in Comune non ci sarà più nessun “ufficio acquedotto” a cui rivolgersi. Quando per i reclami dovremo passare le ore ad ascoltare le voci registrate di un call center.

L’informazione è “complice” di questo processo: la privatizzazione dell’acqua non è un fenomeno nuovo, e non inizia con l’ultima riforma dei servizi pubblici locali; la prima legge che apre le paratie ai privati è stata approvata nel 1994. Ma per oltre tre lustri quest’informazione è stata bandita dalle reti Rai, è rimasta confinata alla pagine di economia e finanza della Repubblica e del Corriere della Sera, ha conquistato titoli a nove colonne solo sulle pagine specialistiche de Il Sole-24 Ore.

Solo chi investe in Borsa sa che l’acqua è “privata” da tempo. Il decreto “Ronchi” arriva solo a completare un’opera avviata nel gennaio del 1994, quando venne approvata dal Parlamento la legge “Galli”, la prima contenente disposizioni organiche in materia di risorse idriche.

Il primo acquedotto, quello di Roma capitale, è finito in Borsa già nel 1999. Quell’anno, con la regia di Francesco Rutelli (sindaco), Linda Lanzillotta (assessore al Bilancio, poi ministro nel governo Prodi dal 2006 al 2008) e Chicco Testa (ex legambientino e deputato del Pci, poi nominato presidente di Acea e transitato in seguito anche alla guida di Enel), il Comune ha ceduto il 49% delle azioni di Acea, l’Azienda comunale energia e ambiente di Roma.

A distanza di oltre dieci anni, leggere i nomi degli azionisti rilevanti della società romana è un utile esercizio per capire chi saprà approfittare della privatizzazione. Chi, e allarghiamo lo sguardo a tutto il Paese, sta per sedersi comodamente su un business che vale almeno 6,5 miliardi di euro all’anno, un flusso di cassa continuo e garantito dalle bollette dei cittadini italiani.

I maggiori soci di Acea dopo il Comune di Roma sono la multinazionale francese dell’energia Gaz de France-Suez (che controlla il 9,9% del capitale) e il gruppo Caltagirone (con l’8,9%, l’ultimo 1% rastrellato sul mercato nel febbraio del 2010).

Suez è l’impresa leader nella gestione dei servizi idrici in tutto il mondo, ma è allergica alla concorrenza: qualche anno fa l’Antitrust italiano ha “pizzicato” un documento interno dell’azienda nel quale dichiarava di voler utilizzare Acea come “cavallo di Troia” per penetrare nel mercato del nostro Paese; Francesco Gaetano Caltagirone, invece, è un costruttore, e guarda con interesse a un settore che, secondo le stime, ha bisogno di 60,5 miliardi di euro di investimenti nei prossimi trent’anni (la metà circa per gli acquedotti e l’altra per la raccolta e il trattamento delle acque reflue). Come se non bastasse, Caltagirone è anche il vice-presidente di una banca che investe volentieri nei servizi idrici, il Monte dei Paschi di Siena, e uno dei principali editori del Paese, a capo di un gruppo che pubblica quotidiani in grado di manipolare in modo incisivo l’opinione pubblica sul tema, come il Mattino di Napoli. Caltagirone è anche, e per finire, il suocero di uno dei leader dell’opposizione, l’esponente dell’Udc Pier Ferdinando Casini.

Queste sono le premesse, e i mulini – ad acqua – contro cui si scontra il movimento che chiede la ri-pubblicizzazione del servizio idrico nel nostro Paese, che prende il nome di Forum italiano dei movimenti per l’acqua e riunisce oltre un migliaio di comitati locali. Per sottrarre l’acqua al mercato, il Forum è arrivato a produrre una legge di iniziativa popolare, sottoscritta da oltre 400mila cittadini. Il testo è ancora nel cassetto della Commissione ambiente della Camera dei Deputati. È una riforma della legge “Galli”, in cui è scritto a chiare lettere che l’acqua è un bene comune, e che il servizio idrico non può essere gestito in una logica di profitto. È privo di rilevanza economica, per usare un termine preso a prestito dalla giurisprudenza europea.

Ma né il governo Prodi, in carica fino al giugno 2008, né il successivo governo Berlusconi hanno preso sul serio quel testo. Dietro le schermaglie in aula, si nasconde una verità scomoda: sul servizio idrico Popolo delle libertà (Pdl) e Partito democratico (Pd) sono d’accordo. Per entrambi l’acqua è una merce”.☺

gadelis@libero.it

 

eoc

eoc