capaci di meraviglia
14 Aprile 2010 Share

capaci di meraviglia

 

Si è da poco concluso a Termoli l'interessante ciclo d’incontri “La Bibbia per l'uomo d'oggi”. In occasione del secondo, quello su “Elia: Il profeta chiamato a vigilare”, ho chiesto ad Eugenio Melandri – giornalista ed ex parlamentare che ha preso parte all'evento – “cosa significa essere cristiani in un continente povero ed oppresso”. In un passo della sua interessante risposta ha detto: “Ho sempre creduto, e continuo a credere, che noi cristiani non dobbiamo essere coloro che predicano la loro verità ma piuttosto quelli che si giocano continuamente i loro valori e la loro verità nella storia e nell'incontro con gli altri. La missione è mettersi in gioco completamente. Essere missionari non significa andare a proporre con delle parole delle cose. No. La missione si fa mettendosi accanto e giocandosi tutti i giorni la credibilità della nostra fede nel rispondere alla domanda di vita che c'è”. Andando a cercare i valori dove sono, evitando forme d’imperialismo culturale o l'arroganza di diritti ritenuti propri ed esclusivi, “essere capaci di meravigliarci, tutte le volte che andiamo in luoghi diversi, in situazioni diverse, anche lontane dalla nostra fede, di fronte ai valori umani e ai valori anche, diciamo così, che vanno al di là del visibile che incontriamo e sui quali siamo chiamati a confrontarci”.

Le sue parole conducono al tema della inculturazione, un cammino che supera il monoculturalismo del cristianesimo ed apre nuovi orizzonti nella comprensione della fede. La verità non è più data ma viene cercata nelle diverse culture. Dio ha deciso di seminare la sua verità ovunque, quello che i Padri della Chiesa hanno chiamato i “Semi del Verbo”. Compito del cristiano è cercarla e scoprire la meraviglia della fede negli altri. In un contesto come quello latinoamericano, pluriculturale, multietnico e plurireligioso la ricerca, il confronto, la speranza diventa particolarmente interessante. Si pensi all'opera pastorale di Mons. Samuel Ruiz Garcìa, vescovo emerito della Diocesi di San Cristòbal de Las Casas in Chiapas. “Crediamo che Dio si manifestò e continua a manifestarsi attraverso i simboli, i riti e le tradizioni delle culture autoctone, nelle tradizioni ascetiche e contemplative, i cui semi Dio ha sparso con frequenza nelle antiche culture, prima della proclamazione del Vangelo di Gesù Cristo nel nostro continente” (III Sinodo Diocesano – Documento della Diocesi di  San Cristobal de las Casas).

In un successivo passo, riprendendo il brano odierno dell'incontro e parlando sull'America Latina, Melandri disse “Elia ci dice con molta chiarezza che Dio parla e agisce sopratutto attraverso i poveri. (…) Sono i poveri che c’insegnano e diventano il luogo teologico della scoperta di Dio (….) Ricordo sempre Don Helden Camara in quel discorso che diceva «il vaticano fa i vescovi e i poveri li convertono» (…) Uno di questi era Mons. Samuel Ruiz, l'esempio tipico del vescovo convertito dai poveri”. In effetti, quando fu nominato vescovo, Don Samuel non conosceva il Chiapas. Scrisse “Fui inviato come Abramo in una terra totalmente sconosciuta per me e senza nessuna preparazione specifica per comprenderla. Arrivai armato solo del mio amore per la Chiesa e il desiderio di servire il popolo di Dio come vescovo”.  Scoprì la drammatica situazione che gli indios stavano vivendo, utilizzatori di beni strettamente necessari, oppressi dall'ingiustizia di chi consumava il superfluo rendendo superflua la loro vita. Capì che essere vescovo in Chiapas significava essere un pastore prevalentemente indigeno. Questo fu l'inizio del suo apostolato tra gli ultimi. La scoperta del valore umano e teologico di chi, vivendo emarginati e in condizioni disumane, potevano essere considerati “i più poveri tra i poveri”. Questo fece dell'indigeno l'oggetto preferenziale della sua pastorale. Così la sua Diocesi s’identificò con coloro che “avevano bisogno dei più elementari beni materiali in contrasto con l'accumulazione di ricchezze nelle mani di una minoranza” (Puebla 1141.114 – Terza Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano,  1979) e  assunse “una chiara e profetica opzione preferenziale e solidaria per i poveri” (Puebla 1135, nota 2).

Il processo di conversione subì un’ulteriore evoluzione con la pastorale umanitaria o evangelizzazione solidaria, rappresentata dall'aiuto all'indigeno esiliato. L'esempio cristiano dei rifugiati guatemaltechi, che tra il 1982 e il 1983 si rifugiarono in Chiapas per sfuggire al terrore militare della dittatura di stato, aumentò nel vescovo la comprensione di quello che significava vivere la fede del povero, dell'uomo oppresso e disprezzato. Nel continente latinoamericano la dignità della persona è stata offesa, ed è offesa, dalla privazione, dalla miseria, dall'ingiustizia e va difesa dalla violazione dei diritti e negazione dei valori umani, barattata ogni giorno per trenta denari. ☺

pinobruno@yahoo.it

 

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