Casa dolce casa
6 Novembre 2021
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Casa dolce casa

“Di quella casa, larga cinque e lunga quattro metri, io ho a cuore la spianata di cemento e le aiuole, dentro c’è solo erba, nessuno ha mai pensato di metterci i fiori e mia madre anche s’è rifiutata, ché piantare vuol dire rimanere” (Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce).

Inauguriamo il ventesimo anno dal sisma che ha colpito il Molise, conservandone l’amaro ricordo ma anche, purtroppo, consapevoli dei ritardi e delle criticità di una ricostruzione incompleta. E non siamo i soli: a quello del 2002 sono seguiti altri tragici eventi, con maggior numero di vittime!

Camminare per le strade de L’ Aquila – come mi è capitato di recente – è una esperienza contraddittoria, sublime e drammatica nello stesso tempo, che lascia, in chi osserva, stupore, rabbia, incredulità: palazzi storici diroccati accanto ad altri edifici appena ristrutturati; monumenti di pregevole arte e abitazioni private accomunati dalla medesima sorte, in attesa di ricostruzione.

Abbandonando il tono di rispettosa compassione per quanto avvenuto, vorrei invitarvi a qualche breve considerazione: la conseguenza primaria dei terremoti, quella che uno spettatore coglie nell’immediato, riguarda le case; i danni del sisma le feriscono, le annientano e i loro resti testimoniano, accanto al dramma presente, quell’insieme di vita e di sentimenti che le ha abitate. Home sweet home [pronuncia: hom suit hom] recita, in maniera quasi puerile, un adagio famosissimo, che in italiano è “casa dolce casa”. Di fronte a situazioni così drammatiche viene da chiedersi: ma la casa è un diritto?

“Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari…”: così l’articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, mentre secondo la nostra Costituzione (art. 47) la Repubblica “favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione”.

Al di là di valutazioni prettamente giuridiche – che tra l’altro non mi competono – vorrei sottolineare che “ricostruzione” nella nostra realtà ha rappresentato (e rappresenta) soprattutto ridare case a chi le ha perse, rimettere in piedi, materialmente, i nostri piccoli centri, ma siamo costretti ad ammettere quanto poco si sia fatto. Sembrerebbe invece logico adoperarsi maggiormente, abbandonare politiche miopi e logiche clientelari, e magari aprirsi a prospettive innovative, come si tenta di fare in altre regioni. Sta diventando di moda, infatti, parlare di social housing [pronuncia: social hausing]: non deve stupire più di tanto che si utilizzi una espressione anglofona, in luogo di quella nostrana, quando una volta avremmo parlato di edilizia popolare. Si tenta di indicare qualcosa di diverso, più moderno?

Viene da chiedersi se con il termine housing, invece di “edilizia”, si voglia veicolare un’accezione più vicina al senso di famiglia. Per correttezza e per rispetto della lingua inglese, della quale spesso ci appropriamo in modo disinvolto e non sempre accurato, il senso di abitazione come luogo degli affetti non è contemplato nel vocabolo house bensì in home, lo stesso dell’adagio richiamato in precedenza. Com’è noto gli inglesi possiedono due termini per tradurre “casa”: ed appunto home rappresenta il focolare domestico, la sede della famiglia e la sua rete di legami; al contrario house è la dimora dal punto di vista architettonico, estetico.

Qualunque sia la motivazione nella scelta del vocabolo, il social housing contemporaneo, sostengono gli esperti del settore, si colloca a metà tra l’edilizia popolare e le proprietà private vendute o affittate a prezzo di mercato ed è rivolto a famiglie o coppie del ceto medio, che non possono permettersi una casa a costi normali, ma che hanno un reddito troppo alto per accedere all’edilizia popolare. Obiettivi di tutto rispetto, non c’è dubbio, e mi augurerei che vengano realmente perseguiti: i vantaggi elencati nei progetti di social housing meritano considerazione ed apprezzamento: realisticamente, purtroppo, paiono restare semplici enunciati, una bella trovata pubblicitaria e nient’altro.

“C-A-S-A, diciamo e ci basta fare poche righe, le mura e il tetto, le finestre, la porta” (Giulia Caminito): non è proprio così, perché tante sono le variabili che interessano il campo delle abitazioni, alle quali si affianca anche la consapevolezza del rispetto dell’ ambiente sia in fase di progettazione che di realizzazione.

Se accompagnata da una volontà politica determinata ed attenta la pratica del social housing realmente potrebbe porre rimedio alla disuguaglianza abitativa, combattere l’esclusione sociale, sostenendo una migliore integrazione;  perseguire l’efficienza produttiva per una elevata qualità  delle costruzioni nuove e di quelle ristrutturate; contribuire al risparmio energetico caratterizzandosi per la sua offerta flessibile, in grado di far fronte sia all’aumento della domanda che alle esigenze dei cittadini interessati.☺

 

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