cultura del lavoro
21 Marzo 2010 Share

cultura del lavoro

 

La sfida autentica che urge affrontare non è sui mezzi, disponibili oggi come non mai nei tempi precedenti, sebbene, purtroppo non per tutti; la scommessa si gioca invece sul piano culturale dei valori ispiratori, degli obiettivi umanizzanti da raggiungere e delle politiche necessarie perché i percorsi siano compiuti. Un mondo nuovo è possibile ma non costruito sulla novità disumana che la globalizzazione attuale ha voluto perseguire. Occorre «ristabilire» e riappropriarsi, in modo adeguato al presente, di quel patrimonio etico generato dalle culture spirituali ed umanistiche – radice solida nel cammino già compiuto dall’umanità – fonti di quella saggezza su cui costruire società migliori e stabilire le fondamenta di una globalizzazione migliore. La fede nella dignità dell’uomo, il valore della vita, del pensiero e dell’opera di ogni persona, il senso dell’altruismo e della solidarietà, l’eliminazione delle discriminazioni, il bisogno di giustizia sociale, il rispetto del pianeta, l’amore per i tempi improduttivi della vita quali l’infanzia e l’anzianità e tanti altri valori condivisi: non hanno bisogno di essere reinventati; sono presenti in tutti i popoli e in tutte le culture, devono solo trovare le strade attuali di essere applicati.

Anche nel processo di definizione di una cultura del lavoro si è giunti già ad alcuni punti fermi su cui fondare una strategia per un lavoro dignitoso, così come l’ILO li ha rilanciati all’inizio di questo terzo millennio: a) il rispetto delle convenzioni internazionali sul lavoro; b) il lavoro liberamente scelto, con uguali opportunità e uguali diritti e una retribuzione adeguata alla dignità dei lavoratori e delle loro famiglie che consenta lo sviluppo delle persone e l’integrazione sociale; c) la salute e la sicurezza nel lavoro e la protezione sociale per i lavoratori e le loro famiglie; d) la libertà di organizzazione e di contrattazione collettiva per tutti i lavoratori e le lavoratrici.

«Le società – comunque organizzate, fortunatamente in modo sempre più democratico – devono rispondere efficacemente alle esigenze materiali e spirituali degli individui, delle famiglie e delle comunità nelle quali esse vivono. Di qui le tre questioni chiave che si impongono all’agenda sociale dell’umanità: povertà, esclusione sociale e disoccupazione» (Vertice di Copenaghen sullo sviluppo sociale).

«Quando allora parliamo di un lavoro dignitoso – afferma Juan Somavia direttore dell’ILO – intendiamo un lavoro che consenta a uomini e donne di affrontare le necessità della propria esistenza, di quella delle famiglie e di mandare i figli a scuola. Un lavoro nel quale le persone siano rispettate e nel quale abbiano il diritto di organizzarsi e far sentire la loro voce. Un lavoro che sia anche in grado di assicurare loro una pensione decente alla fine della vita lavorativa. Ma anche delle politiche volte a creare dei posti di lavoro di qualità per tutti». Lavoro dignitoso perché è fonte di dignità. È fondamentale per la pace nella famiglia e nelle comunità: dove c’è lavoro, queste sono nella condizione perché la pace possa fiorire; finché esistono le ineguaglianze sociali non ci può  essere stabilità,  né si ha sviluppo sociale senza stabilità economica.

Il lavoro dignitoso non è una norma internazionale, bensì una legittima aspirazione di ogni essere umano in tutte le società, la cui realizzazione presuppone un’azione a più livelli. Ogni società e l’intera umanità sono chiamate dunque a definire le priorità e ad organizzarsi di conseguenza. Perché questo accada occorre far interagire in sincronia quattro obiettivi fondamentali.

1. Rendere il lavoro dignitoso il vero obiettivo globale. È inutile una globalizzazione che riduce il prezzo delle scarpe, se poi questo costa al padre il suo posto di lavoro. Il lavoro non può essere più ridotto e umiliato a uno dei tanti “fattori” del mercato; sebbene comporti un costo – insopportabile solo per i ricercatori del profitto ad ogni costo – esso esprime un essere umano il cui lavoro genera dignità e ricchezza, assicura benessere e partorisce il futuro in gestazione.

2. Porre l’equità al centro. Si afferma che la globalizzazione è irreversibile. Certo le capacità tecnologiche che consentono le possibilità odierne sono irreversibili, come ogni conquista culturale, però le politiche che ne guidano le decisioni non corrispondono ad una legge di natura ma di cultura: occorre globalizzare la solidarietà, ovvero, condividere in solidum i beni, il benessere e i mezzi necessari per conseguire l’obiettivo in modo equo.

3. Partire dalla realtà locale. Tutto è stato fatto per agevolare l’universalizzazione della finanza internazionale, la libertà dei capitali, il commercio internazionale, molto poco invece per rafforzare le comunità, le imprese e i mercati locali, dove vive la gente e dove vorrebbe rimanere, se venisse loro data l’opportunità. Al contrario di una globalizzazione che delocalizza tutto, ci si deve avviare verso una globalizzazione localizzata che valorizzi il territorio. Tale obiettivo è ispirato da due principi guida. Primo, l’ormai classico della sussidiarietà, ovvero, per ogni gruppo sociale  i problemi che emergono ad un dato livello devono essere risolti nello stesso livello con il sostegno di un livello più alto o più ampio; non dimentichiamo che la parola latina «subsidium» – da cui sussidiarietà – significa semplicemente “aiuto”, non eliminazione o trasferimento. Il secondo, quello della partecipazione: il diritto di partecipare al processo di governance ad ogni livello, attraverso forme organizzate e contrattazioni collettive, in modo che la tutela della pari dignità delle parti in gioco sia fondamento del dialogo e della partecipazione democratica.

4. Ripensare la governance globale. I benefici di una buona governance locale si raccolgono in simbiosi con una buona governance mondiale: questa ancora non esiste. Ci si era avviati con la creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, del diritto internazionale, delle istituzioni mondiali, ma nel frattempo si è dato spazio ad “interessi privati” o di pochi. L’ONU e i popoli rappresentati “concordano” progetti, soluzioni e percorsi (dichiarazioni, convenzioni, trattati) che vengono offerti alla libera adesione dei governi e degli stati in un processo continuo di crescita nella salvaguardia dei diritti e dei processi propri di ogni comunità dentro una visione solidale dell’unica famiglia umana. Al contrario i vari G8, G20, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del Commercio, ecc… impongono le loro decisioni o regole:  senza la sottomissione ad esse non si ottiene l’aiuto necessario, anche se dovessero stravolgere i tessuti sociali di una comunità.

«Non abbiamo fatto abbastanza per gettare le basi di una pace duratura riducendo drasticamente la piaga della povertà, cercando nuove vie per diffondere lavoro dignitoso e sviluppando imprese produttive che creino occupazione… Dobbiamo iniziare cambiando modelli politici e riconoscere che l’occupazione e la promozione di imprese che creano posti di lavoro costituiscono la strada più efficace per sradicare la povertà» (Juan Somavia). ☺

 

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