donne e occupazione
16 Aprile 2010 Share

donne e occupazione

 

Le donne, nel corso degli anni, si sono ritagliate molti spazi nel mondo del lavoro, grazie alla loro professionalità e alla loro adattabilità alle mutevoli condizioni del mercato. Tranne casi sporadici, si può affermare che le donne si trovano in ogni settore professionale, anche se in misura più o meno consistente.

Non ci si deve, però, far trarre in inganno. Infatti, sebbene queste ottengano un posto di lavoro, in genere si tratta di un'occupazione di basso rango: un lavoro noioso e ripetitivo, con uno scarso livello di responsabilità. Lo scatto professionale, di solito, è riservato ai colleghi. Nei centri decisionali continuano a sedere gli uomini, nonostante la scelta possa essere effettuata anche nei confronti di una donna. Il problema, spesso, consiste nel fatto che per quanto concerne la qualifica di top manager non esistono dei criteri specifici. Ossia la chiamata avviene nominalmente, e colui che effettua tale scelta lo fa sulla base delle proprie preferenze, piuttosto che in riferimento a regole ben precise. Lo scatto di carriera, inoltre, è spesso ostacolato (per le mamme lavoratrici) dal periodo di assenza dal posto di lavoro dovuto alla "maternità". Pochi mesi sono, infatti, sufficienti per rendere obsolete e inutilizzabili le capacità professionali dell'impiegata, che al suo ritorno si trova bloccata ogni possibilità di migliorare la propria posizione.

Stesso discorso vale per le donne che in un periodo della loro vita lavorativa e per ragioni molteplici (per esempio per accudire un figlio) hanno scelto il "part time". Coloro che hanno preferito questa strada, tornando all'impiego "full time", sono considerate impiegate di "serie B", e pertanto non hanno la possibilità di aspirare ad una posizione di maggiore responsabilità.

Infine, l'altro grande problema è rappresentato dall'accesso ai corsi di formazione aziendale, spesso indispensabili per acquisire la competenza necessaria ad ottenere la tanto desiderata "promozione". Gli orari dei corsi, spesso infatti, non rientrano nell'orario lavorativo. Quelle che hanno una famiglia a carico non possono permettersi, nella maggior parte dei casi, di protrarre troppo a lungo la loro lontananza da casa e pertanto devono rinunciarvi. Oppure, i corsi di perfezionamento professionale sono di frequente riservati a categorie d'impiegati già in posizioni di responsabilità. In questo modo, quindi, le donne (e gli uomini) che non ricoprono tali incarichi non possono disporre degli strumenti necessari per conseguire i titoli necessari ad occupare una posizione dirigenziale.

Le lavoratrici, tuttavia, danno un gran peso alla formazione. Da una recente ricerca della CGIL è emerso che i giovani (ed in particolar modo le giovani) sarebbero disposti a rinunciare ad una parte del loro stipendio in cambio di un corso di formazione all'interno dell'azienda in cui lavorano. La famiglia, pertanto, costituisce uno degli ostacoli più insormontabili per una donna che lavora. I tempi del lavoro moderno ed i tempi della famiglia non coincidono. La cura dei figli, del coniuge e della famiglia in generale è affidata e delegata interamente anche alla donna lavoratrice, che deve riuscire a conciliare i propri impegni professionali con quelli familiari a scapito del suo rendimento e del suo tempo libero. Ciò costituisce una discriminante per i datori di lavoro, sia al momento dell'assunzione (non è raro che durante un colloquio di lavoro venga richiesto alla candidata se ha figli o se intende averne), sia al momento della promozione.

La proposta di legge sui congedi parentali, che il ministro per gli Affari Sociali, Livia Turco, ha presentato alle Camere, potrebbe essere una buona ricetta, ma non risolutiva di un problema più profondo. Non a caso una delle esigenze più sentite dalle lavoratrici riguarda la diversa organizzazione del lavoro sulla base dei tempi femminili, che richiedono una maggiore elasticità in virtù del lavoro di cura a cui le donne attendono all'interno della società.

In generale questi ostacoli potrebbero essere rimossi attraverso un provvedimento legislativo, o più agevolmente attraverso il buon senso, destinato ad avere effetti più duraturi. Il problema, però, è soprattutto di natura culturale. La società italiana, infatti, non riconosce ufficialmente e pienamente il ruolo e i diritti della donna lavoratrice. Inoltre, nonostante i numerosi sforzi in questa direzione, la nostra società è ancora pervasa da una serie di pregiudizi, basati sulla sessualità, che rimandano ad uno stereotipo femminile inesistente, spesso responsabile delle difficoltà che le donne incontrano nel mondo del lavoro. A proposito di tale peculiare profilo, occorre evidenziare che uno dei problemi principali per le donne sul posto di lavoro, pur non afferente alla sfera professionale strettamente intesa, sono le "avances" poste in essere dai colleghi e/o dal "principale". Si tratta di un problema molto grave, che non ha una soluzione, eccettuando l'abbandono del posto di lavoro (spesso unica risorsa economica del nucleo familiare), o nel migliore dei casi il trasferimento. In ogni caso l'avanzamento di carriera è oramai escluso, poiché in molti casi la donna viene trasferita in settori dove non c'è possibilità di migliorare la propria posizione professionale. Il paradosso sta nel fatto che la donna molestata viene ulteriormente penalizzata dai provvedimenti dell'ufficio del personale, quando, in realtà è la parte lesa. La conseguenza è che la molestia rimane un fatto privato, che per pudore personale e timore di critiche al proprio comportamento, anziché a quello del molestatore, non condivide con nessuno il suo dramma.

In Italia, attualmente, in assenza di una normativa dettagliata in tema di molestie sul lavoro, si può ricorrere agli artt. 4 ed 8 della Legge 125/91 ("Realizza- zione parità uomo – donna"), in base ai quali si prevede la "possibilità di agire in giudizio contro il datore di lavoro per atti o comportamenti che portino ad una discriminazione anche indiretta sui lavoratori in ragion del sesso"; la legge prevede anche "l'istituzione del consigliere di parità, che ha l'obbligo di rapporto all'autorità giudiziaria per i reati di cui venga a conoscenza nell'esercizio delle sue funzioni". In caso di molestie, inoltre, si può ricorrere alla denuncia penale se si ritiene si sia perfezionata di una delle fattispecie di reato previste dal codice penale per ipotesi di questo tipo oppure si può fare leva  sull'art. 2087 del codice civile, che sancisce il “dovere dell'imprenditore di fare il necessario per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".

Queste disposizioni di legge, tuttavia, non sono sufficienti per assicurare tutela alla lavoratrice molestata. Il problema di fondo consiste nel fatto che non sempre la molestia sessuale è oggettivamente riscontrabile, in quanto spesso si tratta di gesti "innocui" (un regalo non gradito, un eccessivo contatto fisico, discorsi sulla propria sessualità), che, però, nel loro insieme, hanno gli effetti di una violenza psicologica, di talché, nonostante il su richiamato reticolato normativo, le istituzioni hanno sentito comunque la necessità di elaborare un disegno di legge "ad hoc" per le molestie sul lavoro. ☺

marx73@virgilio.it

 

 

 

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