Donne, uomini e violenza
15 Settembre 2023
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Donne, uomini e violenza

Alla data dell’8 agosto scorso, l’Osservatorio nazionale dell’associazione Non una di meno ha registrato 62 femminicidi. Il termine “femminicidio” ha una chiara connotazione identitaria: non è femminicidio se una vittima di sesso femminile viene uccisa nel corso di una rapina o di un attacco terroristico, mentre lo è se invece viene uccisa proprio in quanto donna e per motivi basati sul genere.
La violenza di genere è un fatto sistemico e legato soprattutto ad una diffusa cultura che tende a svalutare la donna, ritenendola inferiore all’uomo ed incasellandola in ruoli di genere legati alle tradizioni, secondo le quali “donna” è colei che è devota all’uomo, che accudisce e si prende cura dei figli e della casa, che si accontenta di stare un passo indietro all’uomo nella vita e nel lavoro. Se si esce fuori da questi schemi, i fatti dicono che si rischia la vita.
Negli ultimi anni, a far data dalla Convenzione di Istanbul, l’impianto normativo che riguarda la tutela della vittima di genere ha subìto diversi interventi, mirati all’inasprimento delle pene, alla prevenzione dell’escalation della violenza e della vittimizzazione secondaria, in realtà con scarsi risultati. I dati infatti parlano di un fenomeno in continua crescita, a dispetto di tutto, e di un grande numero di violenza sommersa, ossia che non arriva neppure ad essere denunciata. La violenza cresce anche tra i giovanissimi, come testimoniano i due recenti casi di violenze sessuali di gruppo a danno di giovani donne poste in essere (anche) da minorenni. È lecito chiedersi in cosa stiamo sbagliando.
Innanzitutto, la formazione di tutti gli operatori che possono intercettare fatti di violenza di genere è ancora troppo poco diffusa: si pensi agli avvocati civilisti che ricevono domande di separazione personale da parte di donne ed alle forze dell’ordine, specie nei piccoli centri, che spesso confondono conflitto e violenza; agli operatori sanitari (dai medici di base agli operatori dei pronto soccorso) e sociali, che vengono in contatto con storie familiari senza saper leggere i segnali di violenza domestica.
In secondo luogo, occorre una formazione specifica sulla valutazione del rischio di escalation di violenza, una pratica ancora troppo poco diffusa al di fuori dei centri antiviolenza: le storie e le vicende non sono tutte uguali, occorre saper riconoscere i casi di maggiore gravità per porre in essere tempestivamente interventi preventivi adeguati (es. collocamento in casa protetta, allontanamento d’urgenza dalla casa familiare, misura cautelare personale coercitiva). Gli strumenti di valutazione del rischio sono ancora troppo poco diffusi tra gli operatori che si occupano di violenza di genere.
In terzo luogo, la diffusione della cultura dell’uguaglianza di genere è ancora troppo scarsa e spesso limitata alla sol(it)a vetrina del 25 novembre, in cui si tirano le somme spesso in maniera melodrammatica e scenografica: una goccia nel mare non è in grado di contrastare secoli di cultura patriarcale! Se raccogliessi tutte le dichiarazioni di intenti e buone intenzioni ascoltate nei vari convegni, avremmo debellato la violenza già da tempo.
Del resto, non mi è mai capitato di incontrare qualcuno che si sia dichiarato esplicitamente a favore della violenza nei confronti delle donne, ma ne ho ascoltati tanti che, per esempio, hanno definito “t***a” una donna che ha avuto molti partner sessuali, confuso i complimenti con le molestie di strada, criticato una donna che lavora “come un uomo”, che cucina male, che abortisce. Basti pensare, per restare nella cronaca recente, alla vicenda Rubiales, nel corso della quale ho sentito tantissimi/e dire “che vuoi che sia, è solo un bacetto?”. E la dichiarazione di Giambruno, compagno della premier, secondo il quale una donna ubriaca deve aspettarsi l’arrivo del lupo, è solo l’ultimo di un atteggiamento che colpevolizza e giudica le donne persino da vittime. La violenza nasce da cose apparentemente piccole come queste.
Soprattutto va detto che nel dibattito, nelle manifestazioni pubbliche, finanche nei convegni dei 25 novembre, sono pressoché del tutto assenti gli uomini, se non in veste di “professori”. Ne ho visti sempre pochissimi tra gli uditori, come se la violenza fosse un fatto di cui parlare solo tra donne. Manca tra gli uomini una seria riflessione (auto)critica sul superamento degli stereotipi di genere e sulla inviolabilità del corpo femminile in assenza di consenso. Manca una riflessione su cosa effettivamente significhi il consenso: un “non no” non è mai un sì.☺

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