Eleonora duse – il gabbiano libero –
22 Marzo 2023
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Eleonora duse – il gabbiano libero –

Le preziose: con questo titolo apro articoli che parlano di donne di ieri, l’altro ieri, oggi che, come le preziose del settecento hanno agito o vissuto per lasciare il testimone alle altre.

“Io sono un gabbiano” dice Nina di Anton Cechov e così è Eleonora. Cechov, dopo averla applaudita ad un suo spettacolo, le scrisse “Non conosco l’italiano ma Ella ha recitato così bene che mi sembra di comprendere ogni parola”. Charlie Chaplin, dopo averla seguita durante uno spettacolo le scrisse “Siete la più grande interprete di teatro del mondo, un’artista perfetta, diretta, terribile; la vostra recitazione viene dalla brace e dalla passione più tragica”.

Questo gabbiano, questa donna fece del teatro e della recitazione una rivoluzione, la sua libertà.

La Divina, come venne chiamata, dà inizio al teatro moderno. Nasce casualmente a Vigevano il 3 ottobre 1858 in una stanza al secondo piano della locanda Cannon d’oro, dato che i suoi genitori, attori veneti, erano lì in tournée. Mentre gli altri bambini giocano nei cortili, lei è negli spazi angusti dei teatri: magra, solitaria, sensibile, vive praticamente tutto il suo tempo in teatro e inizia così la sua carriera, accompagnata da applausi, da trionfi; già piccola incomincia a capire che le passioni, le emozioni, il pathos delle creature che interpreta si riverberano anche nella sua esistenza.

A 13 anni, mentre è in scena, coglie un bisbiglio dietro le quinte, si accorge che la madre che era affetta da tisi da tempo, è morta (la stessa malattia che la tormenterà per tutta la vita). Eleonora, pur straziata dal dolore, continua a recitare e capisce così qual è la vita teatrale.

Irradia fascino interpretativo fisico e psichico, la sua recitazione sprigiona un potere incantatorio che mangia il pubblico: sono leggendarie le sue diafane mani con cui disegna arabeschi in una sorta di partitura spaziale: “le sue braccia magnifiche che muoveva così stupendamente, che vivevano con lei”, scrive Cechov.

Ha un modo di recitare assolutamente nuovo, quasi sperimentale in cui mira a penetrare nel tessuto drammatico delle sue protagoniste con una tecnica sottrattiva. La rivoluzione nel suo modo di recitare è “niente trucco pesante in scena, niente gesti melodrammatici e toni di voce impostati; cercare la naturalezza dell’interpretazione, cosa impensabile in un periodo in cui la recitazione era l’esatto contrario”.

La sua ostinazione la premia con applausi ed ovazioni in scena. Ha la possibilità di affinare il suo stile interpretativo e recitare i drammi di Victor Alexandre Dumas figlio, Shakespeare, Ibsen, fino ad ottenere la consacrazione con il ruolo di protagonista di Teresa Raquin scritta  da Emile Zola, portando ai massimi livelli il suo stile interpretativo che punta “sul fior di labbra”, sul linguaggio del corpo più che sulla parola. È ovvio che questa modalità rivoluziona tutta la storia del fare teatro. E per questo è  ammirata in ogni parte del mondo.

“Quelle povere donne delle mie commedie mi sono talmente entrate nel cuore e nella testa che mentre io mi ingegno di farle capire alla meglio a quelli che m’ascoltano, quasi volessi confortarle,  può essere che adagio adagio hanno finito per confortare me. Il fatto è che mentre tutti diffidano delle donne, io me la intendo benissimo con loro! Io non guardo se hanno mentito, se hanno tradito, se hanno peccato perché io sento che hanno pianto, hanno sofferto o per sentire o per tradire o per amare … io mi metto con loro e per loro e le frugo non per mania di sofferenza ma perché il mio compianto femminile è il più grande e più dettagliato, è più dolce e più completo che non il compianto che mi accordano gli uomini” (Eleonora Duse, Lettera agosto 1884).

Francesca, Edda, Teresa: da dove trae questo dolore? Si può anche pensare che prenda dalla vita privata dato che tutti quanti i suoi amori furono infelici. Giovanissima s’innamora di Martino Cafiero, direttore del Corriere del mattino e ne rimane incinta, ma lui scappa appena viene a conoscenza della gravidanza. Il bambino muore appena nato. Conosce e si sposa con Tebaldo Marchetti, ha l’unica figlia, Enrichetta, ma è un fiasco: “Per reazione mi sentii liberata e sentii che avevo il diritto di fare tutto ciò che volevo e non quello che mi veniva imposto”.

Poi l’incontro con Gabriele D’Annunzio, un amore tossico diremmo oggi, che la distrugge e la schiavizza per quasi dieci anni. Si amano follemente ma lui costantemente la tradisce. Lei produce e recita le opere di lui che diventa famoso: Sogno di un mattino di primavera, La Gioconda, Francesca da Rimini, La città morta; lui innamorato scrive per lei “La pioggia nel pineto”, ma la umilia e la tradisce sempre. Lei, innamorata, subisce ma già nel ‘98 scrive: “Ho bisogno di tentare qualcosa di nuovo, quello che ho fatto fino a ora, quello che ho seguito a fare anche ora non mi accontenta più, sento dentro di me qualcosa che muore, qualcosa che rinasce, sento tutta la parte falsa caduca, anzi già caduta, delle produzioni nelle quali io recito, mi sento nello stesso tempo il desiderio sia pur vago e l’aspirazione verso una forma d’arte che risponda più direttamente, più profondamente allo stato presente del mio spirito”.

Ma non sarà così: la sua salute è continuamente minata dalla tisi, è costantemente sotto  morfina o altre medicine che le minano anche il fisico.

Ne La figlia di Iorio D’Annunzio le preferisce Irma Gramatica e questa è la fine del loro amore. Lei scompare dopo anni vissuti insieme: lui nella villa ‘la Cappon- cina’, e lei nella villa ‘la Porziuncola’ adiacente, l’uno vicino all’altra, indispensabili l’uno all’altra.

Eleonora si sente doppiamente tradita. Nel 1909 D’Annunzio le chiede di interpretare Fedra, lei risponde: “Ho sempre voluto il tuo bene, solo il tuo bene, quello che mi pareva per il tuo bene, non solo la guerra e la gloria ma una vita d’anima, uno che ti aiutasse, che desse placando un amore. Un bel giorno mi sono sentita stroncare in due: ti ho già dato tutto, non posso darti più niente”.

Sembra che si incontrassero per l’ultima volta nel 1922 all’hotel Cavour di Milano. Narra la leggenda che lui si buttasse ai suoi piedi, platealmente in ginocchio, esclamando “Quanto mi avete amato!” e che lei, aiutandolo a rialzarsi, abbia replicato: “Ma non sapete quanto vi ho dimenticato!” ☺

 

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