fimmine lingua longa
2 Luglio 2012 Share

fimmine lingua longa

 

La prima assassinata è del 1896, le ultime di pochi mesi fa. Sono le donne ammazzate dalle mafie. Le hanno volute raccogliere tutte dentro una pubblicazione “Sdisonorate”. È la prima volta che accade. Una ricerca, certamente parziale, che tuttavia vuole essere uno stimolo per una discussione pubblica e una mappa conoscitiva su un tema difficile e contraddittorio come quello del rapporto tra donne e mafia. Che diventa sempre più centrale, che troppo poco finora è stato indagato. Che in questi mesi comincia a trovare spazi. Un dossier che serve innanzitutto a sfatare un’assurda credenza: che i clan in virtù di un presunto codice d’onore non uccidono le donne. La storia dimostra il contrario: le donne – innocenti o dissidenti o senza la forza di uscire dal giogo mafioso – uccise dalle mafie sono più di 150. Sono morte per l’impegno politico, sono rimaste vittime di delitti d’onore, sono state suicidate, sono state oggetto di vendette trasversali, sono morte per un accidente, sono rimaste incastrate dentro una situazione familiare e mafiosa da cui non sono riuscite a uscire. Ne citerò alcune.

1896 – Emanuela Sansone, Palermo. Ha solo 17 anni la prima donna uccisa dai clan. Si chiama Emanuela, è la figlia della bettoliera Giuseppa Di Sano. La ammazzano a Palermo, il 27 dicembre, probabilmente per ritorsione: i mafiosi sospettano che la madre li abbia denunciati per fabbricazione di banconote false. Dopo l’omicidio, la madre di Emanuela collabora con la giustizia: uno dei primi esempi del ruolo positivo delle donne.

1959 – Anna Prestigiacomo, Palermo. Ha 15 anni Anna quando viene uccisa. È la sera del 26 giugno e Anna si trova nel giardino di casa quando viene colpita al petto da diversi colpi di fucile a pallettoni. La sorellina Rosetta, di appena 11 anni, vede in volto il killer e lo riconosce nel vicino di casa. Un amore rifiutato e il contrasto tra una “famiglia perbene” e un delinquente di borgata pronto a scalare i gradini della criminalità sono gli ingredienti di questo assassinio.

1993 – Rita Atria. Rita è la figlia di Vito, piccolo boss di Partanna ucciso da Cosa Nostra nel novembre dell’85 quando lei ha solo 11anni. Alla morte del padre il rapporto con il fratello Nicola e con la cognata Piera Aiello diventa molto intenso, tanto che Rita, a soli 17 anni, diventa la custode di segreti legati alla criminalità organizzata. Siamo negli anni della guerra di mafia che decreta l’ascesa dei corleonesi. A giugno Nicola viene ucciso. Piera, sua moglie, decide di collaborare con la giustizia e Rita ne segue l’esempio, sperando così di riuscire a incastrare gli assassini del padre e del fratello. È Paolo Borsellino a raccogliere le sue rivelazioni, al giudice lei si lega come a un padre. La mamma di Rita le aveva più volte consigliato di rimanerne fuori, di non parlare. Ma Rita è  forte, ha Borsellino accanto, e parla, racconta fatti, fa nomi, indica persone. Il 19 luglio Paolo Borsellino muore nella strage di via D’Amelio. Rita non regge il colpo, è sola e ripudiata dalla famiglia, e una settimana dopo, il 26 luglio, si getta dal settimo piano del palazzo dove vive sotto protezione a Roma. “Fimmina lingua longa e amica degli sbirri”, disse qualcuno parlando di lei. Al suo funerale non va nessuno, nemmeno sua madre, che non perdona a Rita e a sua cognata Piera di aver “tradito” l’onore della famiglia. Si reca al cimitero solo tempo dopo e solo per oltraggiare la memoria della figlia rompendo la lapide e strappando la foto.

1994 – Ilaria Alpi – Mogadiscio, Somalia. Ilaria, 33 anni, è una giornalista e, insieme a Miran Hrovatin, il cameraman che l’accompagna, si trova in Somalia per conto del Tg3 a seguito dell’operazione militare sotto l’egida dell’Onu RestorHope.

“1400 miliardi di lire: dov’è finita questa impressionante quantità di denaro?” – questa la frase trovata nel suo taccuino da cui si capisce che Ilaria sta investigando su traffici illeciti di armi e rifiuti tossici, che intrecciano una parte governativa della cooperazione e alcuni rami dei servizi segreti. Ilaria e Miran vengono uccisi a Mogadiscio il 20 marzo. La commissione d’inchiesta parlamentare istituita nel 2006, presieduta da Carlo Taormina, conclude frettolosamente che Ilaria e Miran sono morti per caso, per un fallito tentativo di rapimento, dopo una settimana “di vacanze”. I suoi genitori, Luciana e Giorgio, non hanno mai smesso di cercare la verità e tenere alta l’attenzione nei confronti di questo mistero che potrebbe rivelarsi uno dei più grandi intrecci tra cattiva politica e ‘ndrangheta nell’ambito della cooperazione internazionale. Nel gennaio del 2011 le indagini sul caso si riaprono e la Commissione riprende il suo lavoro.

1995 – Quello di Gelsomina Verde viene ricordato come uno dei più spietati delitti della camorra. Una vicenda raccontata anche da Roberto Saviano in Gomorra. È una relazione sentimentale con un ragazzo appartenente agli scissionisti a costarle la vita. Gelsomina ha solo 22 anni e fa l’operaia in una fabbrica di pelletteria. La sera del 21 novembre Mina, così viene chiamata dagli amici, viene attirata in una trappola proprio da un amico, Pietro Esposito, uno dei primi della faida a pentirsi. I suoi aguzzini avrebbero dovuto estorcerle delle informazioni. Il mandante, Cosimo Di Lauro, pensa che sappia dove si nasconde il fratello del ragazzo col quale ha avuto una relazione, un rivale di camorra. Probabilmente Mina non sa, forse non vuole tradire. Rimane inspiegabile l’efferatezza con la quale i killer si avventano sul suo corpo. Torturata per ore, forse stuprata, sei colpi di pistola. Alla fine per cancellare lo scempio di quel corpo innocente, assurdamente martoriato, servono le fiamme Nell’immaginario collettivo per lungo tempo le mafie seguivano un “codice d’onore” che impediva di colpire due categorie: donne e bambini. Specularmente, come fintamente si pregiano del “codice d’onore” che non tocca le donne, dichiaratamente mettono in atto il “delitto d’onore” che è rivolto solo alle donne. È del tutto naturale e non desta alcuno scalpore uccidere per lavare la macchia del tradimento, che non deve essere necessariamente di natura sessuale: può essere anche la denuncia di un mafioso, tentando di convincerlo a pentirsi. E non desta scalpore neppure uccidere per via dell’offesa alla “morale della famiglia”, una relazione extraconiugale da parte di una figlia, o una donna associata a un clan. O, ancora, una relazione con una persona che non si piega alla logica della famiglia. Dentro la categoria del “delitto d’onore”, si possono inserire anche le figlie o le sorelle. Da una parte un codice di facciata dall’altra la rivendicazione di una morale pubblica.

Le donne per le mafie sono causa ed effetto, ma anche fonte di giustificazione e occultamento, la maggior parte degli omicidi volontari fatti sulle donne sono stati causati dalla vendetta colpendo l’oggetto più importante del possesso.

Questa dimensione vendicativa trae spunto dalla condizione storica femminile, dalla concezione familistica e dal patriarcato sociale. Colpisco la “cosa” che ti è più cara e simbolicamente, per questo motivo, quella che non andrebbe mai colpita. È lo sfregio più grosso da ricevere e anche il più infamante da commettere.

Ma le  donne servono per alimentare il silenzio che serve alle cosche per andare avanti nei propri affari. La cura del silenzio permette agli uomini di “lavorare”. Sono madri, mogli che subiscono o che creano la cappa d’isolamento del territorio in cui vivono, operano e inviano ordini. Sono però anche quelle che quando rompono il silenzio mettono in crisi l’intero sistema.

È una donna la prima testimone di giustizia della storia e sono sempre donne quelle che in Calabria stanno indebolendo la ‘ndrangheta. E per queste donne la mafia mette a disposizione un altro strumento di morte, simbolicamente addirittura più forte dell’omicidio perché “autoinflitto”, “autoindotto” che è il suicidio.

Degni di sottolineatura sono quelli che si sono collezionati in Calabria, se non altro perché il modo con cui queste donne hanno deciso (?) di non parlare più è identico. Tita Boccafusca e Maria Concetta Cacciola hanno taciuto per sempre ingerendo acido muriatico. Non è una morte indolore quella che hanno scelto anzi, quindi non è attribuibile a questo la decisione. Piuttosto questa modalità può essere nello stesso tempo interpretata come “monito”, come resa, come estrema punizione per aver parlato.☺

 ninive@aliceposta.it

 

 

“Le mafie hanno un codice culturale, producono modelli e cultura mafiosa, alimentano la mafiosità sociale. E chi se non una madre di famiglia, può garantire il perpetuarsi di un codice culturale? Chi se non una donna di casa morigerata, affettuosa, che tiene alla cura dei figli e della casa, che ha rapporti con il vicinato e che non si dimentica mai un dovere, può garantire consenso sociale? La donna è stata e continua ad essere elemento fondante della cultura mafiosa, di quella che definiamo mafiosità. Il tacito assenso delle donne arriva fino alla complicità totale, superando la consapevolezza dell’illiceità della struttura in cui sono inserite e giunge fino all’accettazione del coinvolgimento in qualunque attività quando a richiederlo è il proprio uomo. Non c’è dubbio che questa ‘invisibilità’, in cui la donna ha vissuto, abbia consentito a Cosa Nostra un’impunità per le attività delittuose commesse dalle donne e abbia anche permesso alle stesse donne di coprire ruoli

rilevanti. Il nostro compito è quello di produrre cultura antimafiosa che possa demolire i modelli mafiosi, tocca a quella che si chiama società civile e, soprattutto tocca alle donne della società civile, impegnarsi per combattere questo fenomeno”(Rita Borsellino).

 

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