frantumi di poesia    di Luciana Zingaro
30 Dicembre 2011 Share

frantumi di poesia di Luciana Zingaro

 

Prime incursioni dell’inverno, sferzate di vento gelido, paesaggio scabro, ondate di repentino silenzio. Leggo un frammento di Alceo: Zeus manda pioggia, grande inverno dal cielo, sono ghiacciati i corsi d’acqua…annientalo l’inverno, buttando fuoco su fuoco, mescendo senza risparmio vino dolce, avvolgendo lana morbida  intorno alle tempie.

Mi accoccolo e mi ritrovo, perché è autentico Alceo, come autentica è la lirica greca arcaica tutta: voglio dire, la senti tua e vera e, se anche apri a caso e leggi spinto da un colpo di fortuna, ti imbatti sempre in parole che parlano al cuore e riescono a coinvolgerti, senza mediazioni, in modo diretto.

La conosciamo solo a brani la lirica greca dei secoli VII-VI a.C., una sorta di fantasma di ciò che dovette essere stato, quasi che della poesia italiana conoscessimo poche liriche integrali, qualche composizione minore, un pulviscolo di citazioni casuali. Eppure quei frantumi di poesia hanno attratto e attraggono tuttora tanti lettori, che cercano i lirici greci perduti, li interrogano, li indovinano, tentano di collegarli e di ambientarli, si esercitano nel tradurli, provano a restaurarli.

Il motivo di tale fascinazione non può risiedere unicamente – è stato affermato, però – nel mistero dell’incompiuto, come se la poetica del frammento potesse vantare un suo aprioristico plus-valore; anzi il frammento, quando non è limpido e fluente, quando non è capace di significare autonomamente, invece che invitare, respinge, non produce l’idea del bello, ma alimenta al contrario l’immagine dell’involuto fine a se stesso.

Rimane, dunque, la domanda: perché con tutti i notturni della poesia romantica, per dirne una, quello di Alcmane sembra dirci di più? Ma tanto è: Dormono le cime dei monti e le forre e le balze e le fenditure e la selva e tutti quanti gli animali striscianti la nera terra nutre e le fiere del monte e la stirpe delle api e i mostri degli abissi del mare inquieto; dormono le generazioni degli uccelli dalle ali distese…

Con tutta l’interiorità moderna tradotta in lirica, perché Alceo e Saffo? Tuttavia, purché Saffo accenni, nessuno meglio: Madre dolce non posso più filare, sono vinta dal desiderio di un ragazzo, a causa della molle Afrodite…

Una ragione da sussurrare appena in quanto poco o nulla scientificamente dimostrabile del successo della lirica arcaica forse c’è e risiede – io credo – nella lezione di veridicità che proviene dalla poesia greca antica. Non immaginavano troppo gli antichi, soprattutto non immaginavano se stessi, solo sentivano e si sentivano e trascrivevano in poesia; d’altra parte noi ci avvediamo, anche oscuramente, che la nostra poesia a quel confronto è viziata da una specie di colpa originaria: vuole épater l’esprit, colpire e sedurre la fantasia, un sublime troppo sublime per gli antichi. La donna angelicata, il paesaggio “stato d’animo”, la religione della natura, sono creazioni ex-post, come i tagli di verità filosofica a volte astrusi che intarsiano molta poesia moderna; i poeti cosmici dell’antichità, da Empedocle a Senofane, si espressero in un linguaggio semplice e naturale, lo stesso dei poeti lirici del loro breve orizzonte umano: semplici e naturali, talvolta in modo imbarazzante.

Goethe diceva che tutta la poesia è poesia d’occasione e diceva un’acuta mezza verità, che nell’età arcaica della poesia greca fu una verità intera; tutte le occasioni, se veramente vissute, erano allora “buone” per la poesia: un’invasione di Cimmeri, uno scontro tra barbari e Traci, l’amata che non corrisponde, una caricatura rancorosa, un racconto di dèi ed eroi, le cose di tutti e i sentimenti molto condivisi di qualcuno.

A volte questa veridicità ci sembra povera, come tutto ciò che è autentico; e gli esempi delle nostre presunte nobiltà a confronto delle miserie o quanto meno delle piattezze degli antichi sarebbero innumerevoli: si pensi, ad esempio, alla piccineria di Archiloco che, gettato tra i rovi il suo scudo, aggiunge, atteggiandosi a satiro deforme: “… che me ne importa di quello scudo? Che vada in malora! Me ne procurerò un altro, non peggiore”; o all’implacabile astio di Ipponatte verso un ex-amico: “Tenetemi il mantello, che cavo un occhio a Bupalo…lo pigliassero i Traci e mangiasse pane schiavo toccando il fondo della sofferenza…cascasse con l’onda a riva senza fiato come un cane: questo vorrei vedere, perché mi ha fatto un torto, ha messo sotto i piedi il giuramento: ed era un mio compagno”; o al tenore naïf del Polluce di Pindaro, che invoca Zeus di dare anche a lui la morte, visto che ha ormai perduto il fratello: “Padre Cronide, quale liberazione avrò dalla sventura? Anche per me decreta la morte insieme a lui, signore. Fugge ogni onore dall’uomo che è privato degli amici. Pochi sono i fedeli nel dolore a dividere le pene”.

Nessun eroe moderno avrebbe parlato così al cospetto di Dio, o solo un uomo comune che scrivesse grande poesia. E chissà che avrebbero detto mai gli antichi del Dio di Manzoni, che atterra e suscita, che affanna e che consola per dar prova del “creator suo spirito”: per gli antichi, se il divino ci guadagnava, ci guadagnava senza bisogno, se l’eroe ci perdeva, ci perdeva senza colpa.

Ovvio che questa veridicità totale degli antichi ci seduca e al tempo stesso non ci basti, noi che siamo abituati ad immaginare i sentimenti, a forbirli di elucubrazioni.

Quel che importa, in ogni caso, è saperla questa invalicabile differenza e gustarli gli antichi quali un’acqua di fonte sorgiva, fresca, limpida, restando con ciò lontani dalla posa algida e austera, dall’attitudine immobilista del Classicismo e ugualmente liberandoci dalla passionalità romantica per il primigenio, a rischio sempre di ammalare l’anima di Sehensucht, di desiderio insoddisfatto e rimpianto conseguente (mi viene in mente Leopardi, naturalmente, che ancora nel 1822 scriveva: Vissero i fiori e l’erbe, vissero i boschi un dì…).

Sarebbe per me, potrebbe essere la lirica greca arcaica quasi un viatico di spontaneità, un paradigma insuperato di impulsiva verità, cui guardare come memento, specie quando nostri gesti e le nostre parole si svuotano del loro essenziale significato e ci esibiamo in acrobazie tronfie ma vuote, alla stregua di attori privi di talento.

Simonide di Ceo era noto tra gli altri lirici per il páthos della sua scrittura (delle “lacrime” di Simonide parlava il latino Catullo), pure la sua eloquenza ci suona vergine, il suo mestiere di poeta ancora così poco canonico: Essendo un uomo, non dire mai che sarà il domani, e se vedi qualcuno felice, non dire quanto tempo lo sarà: rapido come il volo di una mosca è il mutamento delle cose umane.

Lineare che penseremmo all’espressione di un bambino, ma quanto vero!

Buon 2012, a presto. ☺

LucianaZingaro@libero.it

 

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