Quanti conoscono la straordinaria esperienza di don Lorenzo Milani ricorderanno senza dubbio l’enunciato “I care” [pronuncia: “ai cher”] posto a fondamento della sua azione educativa.
L’espressione inglese, una proposizione semplice costituita da un soggetto I (io) e dal predicato verbale care, in italiano ha il significato di “mi prendo cura”: il verbo care infatti è presente qui nella sua forma riflessiva (prendersi cura).
Volendo essere precisi care è anche “preoccuparsi”, azione che ci piacerebbe effettuare il meno possibile per evitare di essere sopraffatti dall’ansia. Nella frase negativa (I don’t care), il significato è “fregarsene”, trionfo dell’indifferenza e della superficialità.
A me interessa qui evidenziare l’accezione positiva del verbo care.
Oggi con caring society [pron. “chering sosaieti], definizione ancora poco conosciuta, si fa riferimento ad una società (society appunto) che si prende cura. La visione nuova che si fa strada è quella che attribuisce dignità a tutte le culture e a tutte le esperienze: in questo mutato quadro di riferimento trova spazio la prospettiva di relazioni umane basate sulla solidarietà e sulla partecipazione.
La caring society è un modello di società che ha come oggetto la “persona” nella sua totalità, con i suoi bisogni, manifesti o latenti, materiali o psicologici che ne condizionano l’esistenza. Bambini, malati, anziani, immigrati: queste sono le fasce sociali che al momento rivendicano più attenzione perché più deboli delle altre.
I bambini vivono oggi a fianco degli adulti nella medesima società, sperimentando le stesse situazioni e subendo gli effetti dei problemi affrontati dagli adulti; per essi occorre prevedere strutture di accoglienza che si prendano cura delle loro esigenze sin dai primi anni di vita. Aumentata l’età media di vita e contemporaneamente l’incidenza di patologie devastanti, si ha bisogno per chi si ammala, di centri di ricovero in cui il rapporto umano medico-paziente sia la scelta privilegiata nella diagnosi e nella cura. Tramontata ormai la famiglia patriarcale, siamo chiamati a sostenere la solitudine di chi, come l’anziano, non è più autosufficiente. Posti di fronte alla sfida dell’incontro con chi abbandona la propria terra alla ricerca di condizioni di vita più dignitose, siamo obbligati a dare accoglienza.
Caring society include tutto ciò.
Appare però subito evidente come questa visione che tenta di affermarsi come nuovo modello sociologico non sia di semplice realizzazione; se solo guardiamo alla nostra realtà locale emergono immediatamente gli aspetti negativi: l’incuria nella gestione delle strutture assistenziali, la mancanza di posti di lavoro, le sempre più diffuse “nuove povertà”: lo scenario di una società che non si prende cura. Le insufficienti politiche socio-assistenziali, gli aiuti spesso limitati ad esigui contributi in denaro, la scarsità delle strutture di accoglienza non costituiscono l’obiettivo di una caring society.
Prendersi cura implica il farsi carico e sentirsi responsabile del bene dell’altro; una società che si prende cura non esclude.
Se fino ad alcuni anni addietro la politica assistenziale è stata dominata dal cosiddetto welfare state [pron. “uelfer steit”](“stato sociale”), oggi sembra più appropriato riferirsi alla welfare community [pron. “uelfer commiuniti”], “comunità di assistenza”, in cui prevale la relazione tra i membri del gruppo, in cui ognuno può considerarsi non soltanto destinatario di sostegno ma a sua volta promotore di aiuto verso l’altro.
Prendersi cura sì, fregarsene no!
La Scuola di Barbiana, a distanza di decenni, ci ricorda che la società si costruisce a partire dalla solidarietà di quel “I care”. ☺
dario.carlone@tiscali.it
Quanti conoscono la straordinaria esperienza di don Lorenzo Milani ricorderanno senza dubbio l’enunciato “I care” [pronuncia: “ai cher”] posto a fondamento della sua azione educativa.
L’espressione inglese, una proposizione semplice costituita da un soggetto I (io) e dal predicato verbale care, in italiano ha il significato di “mi prendo cura”: il verbo care infatti è presente qui nella sua forma riflessiva (prendersi cura).
Volendo essere precisi care è anche “preoccuparsi”, azione che ci piacerebbe effettuare il meno possibile per evitare di essere sopraffatti dall’ansia. Nella frase negativa (I don’t care), il significato è “fregarsene”, trionfo dell’indifferenza e della superficialità.
A me interessa qui evidenziare l’accezione positiva del verbo care.
Oggi con caring society [pron. “chering sosaieti], definizione ancora poco conosciuta, si fa riferimento ad una società (society appunto) che si prende cura. La visione nuova che si fa strada è quella che attribuisce dignità a tutte le culture e a tutte le esperienze: in questo mutato quadro di riferimento trova spazio la prospettiva di relazioni umane basate sulla solidarietà e sulla partecipazione.
La caring society è un modello di società che ha come oggetto la “persona” nella sua totalità, con i suoi bisogni, manifesti o latenti, materiali o psicologici che ne condizionano l’esistenza. Bambini, malati, anziani, immigrati: queste sono le fasce sociali che al momento rivendicano più attenzione perché più deboli delle altre.
I bambini vivono oggi a fianco degli adulti nella medesima società, sperimentando le stesse situazioni e subendo gli effetti dei problemi affrontati dagli adulti; per essi occorre prevedere strutture di accoglienza che si prendano cura delle loro esigenze sin dai primi anni di vita. Aumentata l’età media di vita e contemporaneamente l’incidenza di patologie devastanti, si ha bisogno per chi si ammala, di centri di ricovero in cui il rapporto umano medico-paziente sia la scelta privilegiata nella diagnosi e nella cura. Tramontata ormai la famiglia patriarcale, siamo chiamati a sostenere la solitudine di chi, come l’anziano, non è più autosufficiente. Posti di fronte alla sfida dell’incontro con chi abbandona la propria terra alla ricerca di condizioni di vita più dignitose, siamo obbligati a dare accoglienza.
Caring society include tutto ciò.
Appare però subito evidente come questa visione che tenta di affermarsi come nuovo modello sociologico non sia di semplice realizzazione; se solo guardiamo alla nostra realtà locale emergono immediatamente gli aspetti negativi: l’incuria nella gestione delle strutture assistenziali, la mancanza di posti di lavoro, le sempre più diffuse “nuove povertà”: lo scenario di una società che non si prende cura. Le insufficienti politiche socio-assistenziali, gli aiuti spesso limitati ad esigui contributi in denaro, la scarsità delle strutture di accoglienza non costituiscono l’obiettivo di una caring society.
Prendersi cura implica il farsi carico e sentirsi responsabile del bene dell’altro; una società che si prende cura non esclude.
Se fino ad alcuni anni addietro la politica assistenziale è stata dominata dal cosiddetto welfare state [pron. “uelfer steit”](“stato sociale”), oggi sembra più appropriato riferirsi alla welfare community [pron. “uelfer commiuniti”], “comunità di assistenza”, in cui prevale la relazione tra i membri del gruppo, in cui ognuno può considerarsi non soltanto destinatario di sostegno ma a sua volta promotore di aiuto verso l’altro.
Prendersi cura sì, fregarsene no!
La Scuola di Barbiana, a distanza di decenni, ci ricorda che la società si costruisce a partire dalla solidarietà di quel “I care”. ☺
Quanti conoscono la straordinaria esperienza di don Lorenzo Milani ricorderanno senza dubbio l’enunciato “I care” [pronuncia: “ai cher”] posto a fondamento della sua azione educativa.
L’espressione inglese, una proposizione semplice costituita da un soggetto I (io) e dal predicato verbale care, in italiano ha il significato di “mi prendo cura”: il verbo care infatti è presente qui nella sua forma riflessiva (prendersi cura).
Volendo essere precisi care è anche “preoccuparsi”, azione che ci piacerebbe effettuare il meno possibile per evitare di essere sopraffatti dall’ansia. Nella frase negativa (I don’t care), il significato è “fregarsene”, trionfo dell’indifferenza e della superficialità.
A me interessa qui evidenziare l’accezione positiva del verbo care.
Oggi con caring society [pron. “chering sosaieti], definizione ancora poco conosciuta, si fa riferimento ad una società (society appunto) che si prende cura. La visione nuova che si fa strada è quella che attribuisce dignità a tutte le culture e a tutte le esperienze: in questo mutato quadro di riferimento trova spazio la prospettiva di relazioni umane basate sulla solidarietà e sulla partecipazione.
La caring society è un modello di società che ha come oggetto la “persona” nella sua totalità, con i suoi bisogni, manifesti o latenti, materiali o psicologici che ne condizionano l’esistenza. Bambini, malati, anziani, immigrati: queste sono le fasce sociali che al momento rivendicano più attenzione perché più deboli delle altre.
I bambini vivono oggi a fianco degli adulti nella medesima società, sperimentando le stesse situazioni e subendo gli effetti dei problemi affrontati dagli adulti; per essi occorre prevedere strutture di accoglienza che si prendano cura delle loro esigenze sin dai primi anni di vita. Aumentata l’età media di vita e contemporaneamente l’incidenza di patologie devastanti, si ha bisogno per chi si ammala, di centri di ricovero in cui il rapporto umano medico-paziente sia la scelta privilegiata nella diagnosi e nella cura. Tramontata ormai la famiglia patriarcale, siamo chiamati a sostenere la solitudine di chi, come l’anziano, non è più autosufficiente. Posti di fronte alla sfida dell’incontro con chi abbandona la propria terra alla ricerca di condizioni di vita più dignitose, siamo obbligati a dare accoglienza.
Caring society include tutto ciò.
Appare però subito evidente come questa visione che tenta di affermarsi come nuovo modello sociologico non sia di semplice realizzazione; se solo guardiamo alla nostra realtà locale emergono immediatamente gli aspetti negativi: l’incuria nella gestione delle strutture assistenziali, la mancanza di posti di lavoro, le sempre più diffuse “nuove povertà”: lo scenario di una società che non si prende cura. Le insufficienti politiche socio-assistenziali, gli aiuti spesso limitati ad esigui contributi in denaro, la scarsità delle strutture di accoglienza non costituiscono l’obiettivo di una caring society.
Prendersi cura implica il farsi carico e sentirsi responsabile del bene dell’altro; una società che si prende cura non esclude.
Se fino ad alcuni anni addietro la politica assistenziale è stata dominata dal cosiddetto welfare state [pron. “uelfer steit”](“stato sociale”), oggi sembra più appropriato riferirsi alla welfare community [pron. “uelfer commiuniti”], “comunità di assistenza”, in cui prevale la relazione tra i membri del gruppo, in cui ognuno può considerarsi non soltanto destinatario di sostegno ma a sua volta promotore di aiuto verso l’altro.
Prendersi cura sì, fregarsene no!
La Scuola di Barbiana, a distanza di decenni, ci ricorda che la società si costruisce a partire dalla solidarietà di quel “I care”. ☺
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