L’umanità è oggetto di cure continue, fin dalle origini. La cura, il prendersi cura è precisamente la cultura; e la cultura è in prima istanza cura dell’umanità; è un fare umanità prendendosi cura di essa; è fare esseri umani provando, ricercando e accudendo la loro umanità. Il fare umanità nel mondo del carcere può essere sintetizzato con la seguente espressione: garantire Abele, recuperare Caino.
L’esperienza dentro le carceri mi fa comprendere come dietro il “detenuto” ci sia sempre e solo una persona, la sua profonda fragilità e la sua totale incapacità di tutelare la vita. Manipolatori, vittime, cattivi, sfortunati, sono alcune delle definizioni che i detenuti si attribuiscono, ma mai artefici della propria esistenza, mai attori principali. Paradossalmente pur avendo compiuto atti gravissimi che presupporrebbero un egoismo profondo, essi non hanno mai posto la loro vita al centro: l’hanno lasciata scivolare a causa di una sofferenza intollerabile, o di profondo senso di colpa o senso di inferiorità. È difficile far comprendere loro che le buone intenzioni non bastano, che occorre avviare un processo virtuoso che ha alla base una rielaborazione del loro percorso di illegalità: “perché il presente trasforma il passato”. Per far questo occorre che il concetto di pena si arricchisca di un accompagnamento rieducativo costante che favorisca la riflessione, l’autocritica, gettando le basi per un cambiamento reale e sostenere una progettualità di vita.
L’art. 27 della Costituzione recita che: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Servire questa verità, che impone alle istituzioni di accompagnare il condannato, significa chiedere e rendere effettiva la presenza di accompagnatori che possono favorire la rieducazione del condannato. E chi può occuparsi della rieducazione se non gli educatori? Ma quanti sono gli educatori? Pochi, molto pochi. La ricerca “Pianeta Carcere”, che studiò 8 carceri abruzzesi e molisani, subito dopo l’indulto, di cui hanno beneficiato 26.000 persone, ci dice che ogni 51 detenuti vi è un educatore e 78 agenti. Oggi in tutta l’Italia vi sono 51.000 detenuti contro i 43.000 di capienza massima.
Verifico che l’ascolto, la riflessione, il confronto in piccoli gruppi di auto-aiuto, pur essendo una goccia d’acqua, diventa importante, soprattutto quando per mesi, a volte per anni, si verifica che il detenuto non sia neanche contattato dall’educatore per via dell’esiguo numero di questi ultimi rispetto ai primi. Perché questo scandalo se l’obiettivo della pena è la rieducazione? Può essere faticoso prestare servizio volontario nelle carceri perché oltre al carico di sofferenza delle storie dei detenuti c’è anche il sottile boicottaggio di chi “non ti vuole in mezzo ai piedi perché dai fastidio, sei scomodo”.
Vorrei continuare a denunciare questa situazione che esige, come richiamato da Giovanni Paolo II: “un profondo ripensamento”. E la società civile? Risponde Fra Beppe, un cappellano: “Non bene: ci soffermiamo troppo sul male, ne abbiamo paura e l’invocazione generale di sicurezza finisce per restringere gli spazi per l’ascolto e l’accoglienza”. E il rapporto fra Chiesa e carcere? Continua il sacerdote: “Siamo fermi: non vedo una Chiesa premurosa e disponibile all’accoglienza e al rischio. Come cristiani, invece dobbiamo rischiare”. ☺
adelellis@virgilio.it
L’umanità è oggetto di cure continue, fin dalle origini. La cura, il prendersi cura è precisamente la cultura; e la cultura è in prima istanza cura dell’umanità; è un fare umanità prendendosi cura di essa; è fare esseri umani provando, ricercando e accudendo la loro umanità. Il fare umanità nel mondo del carcere può essere sintetizzato con la seguente espressione: garantire Abele, recuperare Caino.
L’esperienza dentro le carceri mi fa comprendere come dietro il “detenuto” ci sia sempre e solo una persona, la sua profonda fragilità e la sua totale incapacità di tutelare la vita. Manipolatori, vittime, cattivi, sfortunati, sono alcune delle definizioni che i detenuti si attribuiscono, ma mai artefici della propria esistenza, mai attori principali. Paradossalmente pur avendo compiuto atti gravissimi che presupporrebbero un egoismo profondo, essi non hanno mai posto la loro vita al centro: l’hanno lasciata scivolare a causa di una sofferenza intollerabile, o di profondo senso di colpa o senso di inferiorità. È difficile far comprendere loro che le buone intenzioni non bastano, che occorre avviare un processo virtuoso che ha alla base una rielaborazione del loro percorso di illegalità: “perché il presente trasforma il passato”. Per far questo occorre che il concetto di pena si arricchisca di un accompagnamento rieducativo costante che favorisca la riflessione, l’autocritica, gettando le basi per un cambiamento reale e sostenere una progettualità di vita.
L’art. 27 della Costituzione recita che: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Servire questa verità, che impone alle istituzioni di accompagnare il condannato, significa chiedere e rendere effettiva la presenza di accompagnatori che possono favorire la rieducazione del condannato. E chi può occuparsi della rieducazione se non gli educatori? Ma quanti sono gli educatori? Pochi, molto pochi. La ricerca “Pianeta Carcere”, che studiò 8 carceri abruzzesi e molisani, subito dopo l’indulto, di cui hanno beneficiato 26.000 persone, ci dice che ogni 51 detenuti vi è un educatore e 78 agenti. Oggi in tutta l’Italia vi sono 51.000 detenuti contro i 43.000 di capienza massima.
Verifico che l’ascolto, la riflessione, il confronto in piccoli gruppi di auto-aiuto, pur essendo una goccia d’acqua, diventa importante, soprattutto quando per mesi, a volte per anni, si verifica che il detenuto non sia neanche contattato dall’educatore per via dell’esiguo numero di questi ultimi rispetto ai primi. Perché questo scandalo se l’obiettivo della pena è la rieducazione? Può essere faticoso prestare servizio volontario nelle carceri perché oltre al carico di sofferenza delle storie dei detenuti c’è anche il sottile boicottaggio di chi “non ti vuole in mezzo ai piedi perché dai fastidio, sei scomodo”.
Vorrei continuare a denunciare questa situazione che esige, come richiamato da Giovanni Paolo II: “un profondo ripensamento”. E la società civile? Risponde Fra Beppe, un cappellano: “Non bene: ci soffermiamo troppo sul male, ne abbiamo paura e l’invocazione generale di sicurezza finisce per restringere gli spazi per l’ascolto e l’accoglienza”. E il rapporto fra Chiesa e carcere? Continua il sacerdote: “Siamo fermi: non vedo una Chiesa premurosa e disponibile all’accoglienza e al rischio. Come cristiani, invece dobbiamo rischiare”. ☺
L’umanità è oggetto di cure continue, fin dalle origini. La cura, il prendersi cura è precisamente la cultura; e la cultura è in prima istanza cura dell’umanità; è un fare umanità prendendosi cura di essa; è fare esseri umani provando, ricercando e accudendo la loro umanità. Il fare umanità nel mondo del carcere può essere sintetizzato con la seguente espressione: garantire Abele, recuperare Caino.
L’esperienza dentro le carceri mi fa comprendere come dietro il “detenuto” ci sia sempre e solo una persona, la sua profonda fragilità e la sua totale incapacità di tutelare la vita. Manipolatori, vittime, cattivi, sfortunati, sono alcune delle definizioni che i detenuti si attribuiscono, ma mai artefici della propria esistenza, mai attori principali. Paradossalmente pur avendo compiuto atti gravissimi che presupporrebbero un egoismo profondo, essi non hanno mai posto la loro vita al centro: l’hanno lasciata scivolare a causa di una sofferenza intollerabile, o di profondo senso di colpa o senso di inferiorità. È difficile far comprendere loro che le buone intenzioni non bastano, che occorre avviare un processo virtuoso che ha alla base una rielaborazione del loro percorso di illegalità: “perché il presente trasforma il passato”. Per far questo occorre che il concetto di pena si arricchisca di un accompagnamento rieducativo costante che favorisca la riflessione, l’autocritica, gettando le basi per un cambiamento reale e sostenere una progettualità di vita.
L’art. 27 della Costituzione recita che: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Servire questa verità, che impone alle istituzioni di accompagnare il condannato, significa chiedere e rendere effettiva la presenza di accompagnatori che possono favorire la rieducazione del condannato. E chi può occuparsi della rieducazione se non gli educatori? Ma quanti sono gli educatori? Pochi, molto pochi. La ricerca “Pianeta Carcere”, che studiò 8 carceri abruzzesi e molisani, subito dopo l’indulto, di cui hanno beneficiato 26.000 persone, ci dice che ogni 51 detenuti vi è un educatore e 78 agenti. Oggi in tutta l’Italia vi sono 51.000 detenuti contro i 43.000 di capienza massima.
Verifico che l’ascolto, la riflessione, il confronto in piccoli gruppi di auto-aiuto, pur essendo una goccia d’acqua, diventa importante, soprattutto quando per mesi, a volte per anni, si verifica che il detenuto non sia neanche contattato dall’educatore per via dell’esiguo numero di questi ultimi rispetto ai primi. Perché questo scandalo se l’obiettivo della pena è la rieducazione? Può essere faticoso prestare servizio volontario nelle carceri perché oltre al carico di sofferenza delle storie dei detenuti c’è anche il sottile boicottaggio di chi “non ti vuole in mezzo ai piedi perché dai fastidio, sei scomodo”.
Vorrei continuare a denunciare questa situazione che esige, come richiamato da Giovanni Paolo II: “un profondo ripensamento”. E la società civile? Risponde Fra Beppe, un cappellano: “Non bene: ci soffermiamo troppo sul male, ne abbiamo paura e l’invocazione generale di sicurezza finisce per restringere gli spazi per l’ascolto e l’accoglienza”. E il rapporto fra Chiesa e carcere? Continua il sacerdote: “Siamo fermi: non vedo una Chiesa premurosa e disponibile all’accoglienza e al rischio. Come cristiani, invece dobbiamo rischiare”. ☺
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