i figli del vento
17 Aprile 2010 Share

i figli del vento

 

Gli zingari iniziano a raccontare anche su Internet le mille anime della propria cultura. Senza rinunciare alla libertà di non avere confini.Carovane virtuali. Ruote in perenne movimento come il simbolo che compare sulla bandiera rom.

Issata per la prima volta a Bucarest nell’ottobre del 1933, presentata nel 1971 al primo convegno mondiale dei Rom a Londra e oggi riconosciuta da tutti i gruppi, mostra la ruota rossa di un carro, con i sedici raggi che alludono alla molteplicità delle genti nomadi, tra i colori del cielo e della terra. Silenziosa e sinuosa, fatta di mille voci che si sfiorano ma non si incontrano mai, che parlano la stessa lingua ma non comunicano, che descrivono lo stesso viaggio ma prendono sempre direzioni diverse.

Nomadi o reietti?

Qualcuno li ha soprannominati "figli del vento". Perché fanno parte di un popolo ma non si sono mai stretti nei confini di uno stato, perché sanno essere abili commercianti ma non hanno mai battuto moneta, perché hanno tramandato le loro tradizioni nei secoli senza mai affidarle a pagine scritte. La loro è una storia riferita da altri, certe volte leggendaria, romantica e misteriosa, altre risolta nelle parole sporcizia, elemosina, furto.

Eppure qualcosa è cambiato, o sta cambiando. Oggi i Rom iniziano a raccontare al mondo le loro radici, le loro speranze, le loro battaglie. E lo fanno aggiungendo alla memoria orale i server di Internet, ai raduni intorno al fuoco le chat e i forum. Ci sono zingari che si collegano ad Internet e si aprono ai gagè (così i Rom chiamano i non zingari).

Sono partiti dall’India intorno all’anno Mille e hanno iniziato la loro marcia plurisecolare attraverso l’Europa: ne parlano le cronache francesi nel 1419, le spagnole nel 1447, le inglesi agli inizi del ‘500. La pelle olivastra, i vestiti sgargianti, lo stile di vita stravagante li rendono da subito “diversi”, pericolosi agli occhi dei più. La loro è una storia costellata di espulsioni, divieti e rifiuti: dalla prima deportazione nelle colonie portoghesi di Capo Verde e del Brasile nel '600 allo sterminio nei lager nazisti.

Gitani, dunque nomadi. Ma quanto è sottile il discrimine tra un nomadismo per scelta e la fuga senza tregua di un popolo di reietti?

Sempre in cammino

Quasi in ogni punto del pianeta c’è un’associazione che si occupa del mondo gitano, narra le sue leggende, rivendica i suoi diritti. In rappresentanza di circa 30 milioni di anime, di cui oltre la metà nella sola Europa. Basti ricordare, tra i gruppi più impegnati, l'European Roman Rights Center, l’Union Romani, il Patrin Web Journal e, negli Stati Uniti, la comunità riunita attorno alla God’s Gypsy Christian Church.

Spesso sono organizzazioni gestite insieme a gagè, volontari, operatori sociali o studiosi, ma comunque attente a non deformare il punto di vista zingaro, a raccogliere e registrare, per quanto possibile, le parole, i pensieri, le aspettative di uomini e donne di sangue rom.

I Rom

Li chiamiamo “Rom”, ma avremmo potuto anche scrivere “Gypsie”, “Gitani”, “Zingari”, “Tzigani”. Lo abbiamo fatto di proposito perché, in romaní, rom significa "uomo libero".

Per gli antichi figli del vento, nonostante tutto, il vento continua a soffiare. Storie di lavavetri e altri reietti e la sinistra (leggi Partito Democratico) insegue e solletica la cultura reazionaria dell’italiano medio.

Perché costoro si chiamano tra loro ancora compagni, hanno alle loro spalle la storia del Partito Comunista, cantano l’internazionale, rivendicano l’eredità morale della Resistenza? Se li interroghi ti rispondono “io non sono razzista, ci mancherebbe, ma non possiamo lasciare il tema della legalità nelle mani della destra”. Il punto è che l’imbarbarimento non trova ostacoli nella famigerata “base”. O sì, ci tocca leggere del sindaco di Roma che solletica la pancia reazionaria del paese e vanta nelle sue interviste – per smontare l’aura del buono – i 30 sgomberi di campi rom nella capitale. Ma i militanti? Il popolo della sinistra? Niente, encefalogramma piatto, ingoia di tutto.

Quel che un tempo era la sinistra italiana oggi solletica l’immortale cultura reazionaria del paese, sperando magari che alle urne non finisca per scegliere il possessore del copyright, quella destra neofascista o post-fascista che cresce e si rafforza con slogan facili facili che indicano l’immigrato – o il diverso, il povero, il gay – quale responsabile del crescente disagio sociale.

 La sinistra in fondo persegue la stessa logica, fino al paradosso di trasformare il fastidio -come ha scritto Rina Gagliardi – in ideologia. Reminescenza di una (cattiva) coscienza spinge i promotori dell’iniziativa fiorentina a parlare di “lotta alle cosche”. Poco importa se la misura è repressiva, fino alla detenzione. Ad occuparsi dei diseredati, degli ultimi, dei reietti, dei marginali, ad occuparsi di questa “immondizia umana” non è più la politica ma viene chiamata la polizia.

 Il reietto oggi ha una sola funzione sociale, come indicano i marxisti del gruppo tedesco “Krisis”: quella della funzione deterrente. La volpe capitalista detta la regola nel pollaio: i poveri scelgano se lavorare in qualsiasi condizione o morire di fame. Alla fine del Settecento la chiamavano “costrizione silenziosa”.

 Ma elevando il fastidio ad ideologia si corre il rischio che nell’elenco prima o poi ci si possa finire in tanti. Dai graffitari ai mendicanti, dai cicloamatori ai bambini capricciosi, dai collezionisti di tappi alle bionde ossigenate, dai gommisti dalle mani sporche ai cinesi in quanto cinesi, dagli amministratori di condomini ai vigili che multano per una sosta veloce in doppia fila,  dagli uomini con gli occhi scuri alle donne che non dicono sempre  sì. Chi può prevedere come si orienterà il gusto dell’italiano medio?

E se diventassimo tutti per reazione figli del vento? ☺

ninive@aliceposta.it

 

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