Ogni qual volta mi capita di assistere ad uno spettacolo teatrale il mio collo è tutto un fascio di muscoli, tesi nella fatica di raggiungere la posizione migliore e riuscire così a vedere buona parte del proscenio. Non mi sottraggo allo sforzo perché credo ancora alla forza dirompente del teatro e alla possibilità che esso possiede, attraverso la finzione scenica, di solleticare e sollecitare la mente nell’esercizio più consono ad un umano: leggere tradurre ricostruire interpretare la realtà.
Il buio della sala, il gioco di luci che spesso accompagna l’uscita dei personaggi mi ricordano quel celebre passo di 2.400 anni fa nel quale Platone paragona l’esistenza umana a quella di prigionieri dentro una caverna. In uno dei suoi più famosi dialoghi, La Repubblica, il filosofo greco immagina appunto degli uomini chiusi in una caverna, incatenati alle gambe e al collo; all’entrata della grotta c’e un muro dietro il quale passano altri uomini e donne che trasportano sulla testa utensili e oggetti di ogni specie. Rivolti come sono alla parete di fondo della caverna, i prigionieri vedono riflesse su di essa solo le ombre degli oggetti, illuminati dalla luce del sole: la visione parziale della realtà impedisce loro la vera conoscenza.
Dai banchi di scuola in poi avrò trovato mille menzioni del mito della caverna platonica eppure mi accorgo di non averlo mai compreso pienamente. Sembra che mi torni utile, oltre che chiaro, solo adesso, quando avverto l’inatteso che avanza e la necessità di rivedere la mia visione del mondo. In una cultura singolare quale era quella greca il mito di Platone ha spronato alla ricerca della conoscenza, indicando delle tappe necessarie e indispensabili per l’interpretazione della realtà; oggi il mondo plurale della globalizzazione ci solleva dalla fatica del pensiero, fagocita e omologa i nostri desideri, si impossessa delle nostre paure, le ingigantisce. Tutto nell’illusione di un progresso garantito.
Accade quando in nome di un falso modernismo le nostre colline ospitano schiere di pale eoliche, i suoli accolgono ogni sorta di rifiuti, gli anziani, un tempo custodi dell’esperienza e della tradizione, oggi volti spenti e occhi fissi nel vuoto dello schermo televisivo. E i più applaudono alle magnifiche sorti e progressive, incapaci di distinguere tra realtà e finzione.
Gli uomini della caverna platonica scambiano le ombre proiettate sulla parete per verità e impiegano il tempo a gareggiare nel cogliere le ombre riflesse, nell’indovinarne la sequenza: questa è l’unica forma di sapere che hanno a disposizione; il più bravo sarà colui che riuscirà a riconoscere tutte le ombre. Noi invece abdichiamo all’esercizio stesso del pensiero e preferiamo far prevalere il buon senso comune, l’approssimazione, l’ovvietà. Nasciamo, viviamo nella passività. Non ci muoviamo. Le immagini passano davanti a noi e noi viviamo, ad ogni istante, ciò che ci viene offerto dal presentatore di turno. Amiamo a tal punto la nostra degradazione che notizie contraddittorie possono attraversarci senza che minimamente ce ne accorgiamo. Ci stupisce più la sensazionalità di un evento che l’evento stesso, ci rassegniamo ad uno scetticismo generalizzato, all’imposizione di un determinismo economico-sociale, al progresso telecomandato.
Dalla mia poltrona in platea continuo a seguire la trama degli eventi; non sempre riesco a vedere la scena per intero, talvolta odo solo le voci degli attori e allora aspetto con pazienza che le circostanze dell’azione li portino di nuovo nello spicchio di palco visibile.
Ma sono pronta a scommettere sul cambiamento: dalla mia condizione di spettatrice, prigioniera, come nella caverna, di una visione parziale della realtà, a persona libera, che può voltarsi, lasciare il teatro e non guardare più il mondo, gli uomini, le cose con gli occhi dell’abitudine, né accontentarsi dell’apparenza, ma tentare di scoprire questo mondo nel senso di “togliergli di dosso quel che lo copre”. E forse, solo allora, questa commedia di inganni che è diventata la vita non apparirà più tale. ☺
annama.mastropietro@tiscali.it
Ogni qual volta mi capita di assistere ad uno spettacolo teatrale il mio collo è tutto un fascio di muscoli, tesi nella fatica di raggiungere la posizione migliore e riuscire così a vedere buona parte del proscenio. Non mi sottraggo allo sforzo perché credo ancora alla forza dirompente del teatro e alla possibilità che esso possiede, attraverso la finzione scenica, di solleticare e sollecitare la mente nell’esercizio più consono ad un umano: leggere tradurre ricostruire interpretare la realtà.
Il buio della sala, il gioco di luci che spesso accompagna l’uscita dei personaggi mi ricordano quel celebre passo di 2.400 anni fa nel quale Platone paragona l’esistenza umana a quella di prigionieri dentro una caverna. In uno dei suoi più famosi dialoghi, La Repubblica, il filosofo greco immagina appunto degli uomini chiusi in una caverna, incatenati alle gambe e al collo; all’entrata della grotta c’e un muro dietro il quale passano altri uomini e donne che trasportano sulla testa utensili e oggetti di ogni specie. Rivolti come sono alla parete di fondo della caverna, i prigionieri vedono riflesse su di essa solo le ombre degli oggetti, illuminati dalla luce del sole: la visione parziale della realtà impedisce loro la vera conoscenza.
Dai banchi di scuola in poi avrò trovato mille menzioni del mito della caverna platonica eppure mi accorgo di non averlo mai compreso pienamente. Sembra che mi torni utile, oltre che chiaro, solo adesso, quando avverto l’inatteso che avanza e la necessità di rivedere la mia visione del mondo. In una cultura singolare quale era quella greca il mito di Platone ha spronato alla ricerca della conoscenza, indicando delle tappe necessarie e indispensabili per l’interpretazione della realtà; oggi il mondo plurale della globalizzazione ci solleva dalla fatica del pensiero, fagocita e omologa i nostri desideri, si impossessa delle nostre paure, le ingigantisce. Tutto nell’illusione di un progresso garantito.
Accade quando in nome di un falso modernismo le nostre colline ospitano schiere di pale eoliche, i suoli accolgono ogni sorta di rifiuti, gli anziani, un tempo custodi dell’esperienza e della tradizione, oggi volti spenti e occhi fissi nel vuoto dello schermo televisivo. E i più applaudono alle magnifiche sorti e progressive, incapaci di distinguere tra realtà e finzione.
Gli uomini della caverna platonica scambiano le ombre proiettate sulla parete per verità e impiegano il tempo a gareggiare nel cogliere le ombre riflesse, nell’indovinarne la sequenza: questa è l’unica forma di sapere che hanno a disposizione; il più bravo sarà colui che riuscirà a riconoscere tutte le ombre. Noi invece abdichiamo all’esercizio stesso del pensiero e preferiamo far prevalere il buon senso comune, l’approssimazione, l’ovvietà. Nasciamo, viviamo nella passività. Non ci muoviamo. Le immagini passano davanti a noi e noi viviamo, ad ogni istante, ciò che ci viene offerto dal presentatore di turno. Amiamo a tal punto la nostra degradazione che notizie contraddittorie possono attraversarci senza che minimamente ce ne accorgiamo. Ci stupisce più la sensazionalità di un evento che l’evento stesso, ci rassegniamo ad uno scetticismo generalizzato, all’imposizione di un determinismo economico-sociale, al progresso telecomandato.
Dalla mia poltrona in platea continuo a seguire la trama degli eventi; non sempre riesco a vedere la scena per intero, talvolta odo solo le voci degli attori e allora aspetto con pazienza che le circostanze dell’azione li portino di nuovo nello spicchio di palco visibile.
Ma sono pronta a scommettere sul cambiamento: dalla mia condizione di spettatrice, prigioniera, come nella caverna, di una visione parziale della realtà, a persona libera, che può voltarsi, lasciare il teatro e non guardare più il mondo, gli uomini, le cose con gli occhi dell’abitudine, né accontentarsi dell’apparenza, ma tentare di scoprire questo mondo nel senso di “togliergli di dosso quel che lo copre”. E forse, solo allora, questa commedia di inganni che è diventata la vita non apparirà più tale. ☺
Ogni qual volta mi capita di assistere ad uno spettacolo teatrale il mio collo è tutto un fascio di muscoli, tesi nella fatica di raggiungere la posizione migliore e riuscire così a vedere buona parte del proscenio. Non mi sottraggo allo sforzo perché credo ancora alla forza dirompente del teatro e alla possibilità che esso possiede, attraverso la finzione scenica, di solleticare e sollecitare la mente nell’esercizio più consono ad un umano: leggere tradurre ricostruire interpretare la realtà.
Il buio della sala, il gioco di luci che spesso accompagna l’uscita dei personaggi mi ricordano quel celebre passo di 2.400 anni fa nel quale Platone paragona l’esistenza umana a quella di prigionieri dentro una caverna. In uno dei suoi più famosi dialoghi, La Repubblica, il filosofo greco immagina appunto degli uomini chiusi in una caverna, incatenati alle gambe e al collo; all’entrata della grotta c’e un muro dietro il quale passano altri uomini e donne che trasportano sulla testa utensili e oggetti di ogni specie. Rivolti come sono alla parete di fondo della caverna, i prigionieri vedono riflesse su di essa solo le ombre degli oggetti, illuminati dalla luce del sole: la visione parziale della realtà impedisce loro la vera conoscenza.
Dai banchi di scuola in poi avrò trovato mille menzioni del mito della caverna platonica eppure mi accorgo di non averlo mai compreso pienamente. Sembra che mi torni utile, oltre che chiaro, solo adesso, quando avverto l’inatteso che avanza e la necessità di rivedere la mia visione del mondo. In una cultura singolare quale era quella greca il mito di Platone ha spronato alla ricerca della conoscenza, indicando delle tappe necessarie e indispensabili per l’interpretazione della realtà; oggi il mondo plurale della globalizzazione ci solleva dalla fatica del pensiero, fagocita e omologa i nostri desideri, si impossessa delle nostre paure, le ingigantisce. Tutto nell’illusione di un progresso garantito.
Accade quando in nome di un falso modernismo le nostre colline ospitano schiere di pale eoliche, i suoli accolgono ogni sorta di rifiuti, gli anziani, un tempo custodi dell’esperienza e della tradizione, oggi volti spenti e occhi fissi nel vuoto dello schermo televisivo. E i più applaudono alle magnifiche sorti e progressive, incapaci di distinguere tra realtà e finzione.
Gli uomini della caverna platonica scambiano le ombre proiettate sulla parete per verità e impiegano il tempo a gareggiare nel cogliere le ombre riflesse, nell’indovinarne la sequenza: questa è l’unica forma di sapere che hanno a disposizione; il più bravo sarà colui che riuscirà a riconoscere tutte le ombre. Noi invece abdichiamo all’esercizio stesso del pensiero e preferiamo far prevalere il buon senso comune, l’approssimazione, l’ovvietà. Nasciamo, viviamo nella passività. Non ci muoviamo. Le immagini passano davanti a noi e noi viviamo, ad ogni istante, ciò che ci viene offerto dal presentatore di turno. Amiamo a tal punto la nostra degradazione che notizie contraddittorie possono attraversarci senza che minimamente ce ne accorgiamo. Ci stupisce più la sensazionalità di un evento che l’evento stesso, ci rassegniamo ad uno scetticismo generalizzato, all’imposizione di un determinismo economico-sociale, al progresso telecomandato.
Dalla mia poltrona in platea continuo a seguire la trama degli eventi; non sempre riesco a vedere la scena per intero, talvolta odo solo le voci degli attori e allora aspetto con pazienza che le circostanze dell’azione li portino di nuovo nello spicchio di palco visibile.
Ma sono pronta a scommettere sul cambiamento: dalla mia condizione di spettatrice, prigioniera, come nella caverna, di una visione parziale della realtà, a persona libera, che può voltarsi, lasciare il teatro e non guardare più il mondo, gli uomini, le cose con gli occhi dell’abitudine, né accontentarsi dell’apparenza, ma tentare di scoprire questo mondo nel senso di “togliergli di dosso quel che lo copre”. E forse, solo allora, questa commedia di inganni che è diventata la vita non apparirà più tale. ☺
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