
Il ritmo del mondo
Antonio Prete (Copertino 1939) è un intellettuale molto poliedrico che, come saggista, si è a lungo occupato di grandi poeti, fra cui Leopardi e Baudelaire, e di temi di primo piano come l’interiorità, la compassione, la lontananza e la nostalgia, l’arte della traduzione. Assai suggestiva (per Bollati Boringhieri, suo editore d’elezione) è la raccolta di memorie Album di un’infanzia nel Salento. In versi ha pubblicato presso Donzelli Menhir (2007) e Se la pietra fiorisce (2012); poi, per Einaudi, Tutto è sempre ora (2019) e la nuova silloge Convito delle stagioni (agosto 2024). A mettere bene a fuoco il taglio del suo universo poetico è sufficiente anche solo un rapido elenco di quelle immagini-tema che ripetutamente si avvicendano nelle liriche di questa sua ultima raccolta (le cosiddette «invarianti»): alberi e piante, in sbalorditiva molteplicità, così come avviene per gli animali (vi si dedica l’intera sezione Per un bestiario). Campi e boschi, cieli, nuvole, con predilezione per i momenti di tramonto, crepuscolo, sera. E ancora: la luce e le ombre, il vento, il tempo. E luna e stelle, e paesaggi del cosmo. Le «stagioni» del titolo sono dunque attraversate (si pensi alla poesia Passaggio di stagione) con particolare attenzione alle epifanie della natura, e con un innamorato sguardo sulle sue meraviglie. Brillano, naturalmente, molti altri motivi. Innanzitutto Il Sud nei pensieri (fra l’altro, il libro si chiude su tre poesie in dialetto di Copertino): «è il Sud, lingua del ricordo, polvere/ celeste nella materia dei giorni,/ il Sud che è lontananza e insieme spina,/ terra rossa, tumulto di partenze […]». E poi i viaggi, le memorie, le distanze che, con l’avanzare degli anni, ci separano da passati amori e amici scomparsi. Fra questi amici non mancano illustri poeti, come Mario Luzi, Edmond Jabès o Yves Bonnefoy, e dunque assume grande rilievo anche il tema dell’importanza della poesia e della parola come àncora di salvezza in un mondo perverso. Questo ci introduce a un altro tratto saliente del libro, ovvero un’amara consapevolezza della «pena che abita il pianeta» (p. 37), della «trama sconfinata di ferite/ che è il mondo» (p. 23). In una delle occasionali prose liriche (p. 85) appare «senza confini la geografia terrestre del dolore». «Corre la terra con il suo dolore/ negli spazi, tra mondi innumerabili». Conseguentemente l’intonazione si apre (ma senza alcuna tribunizia invadenza) a una prospettiva civile e di militante esecrazione nei riguardi della sofferenza che l’uomo crea di propria iniziativa, con l’odio, le armi, le guerre (Di là dal sipario): «il mondo corre verso la sua sera». Anche per contrastare ed esorcizzare questa capillare pervadenza delle «ferite», proprio nella natura che tutti ci avvolge – per quanto anche l’ambiente sia messo in pericolo dalla nostra scelleratezza – occorre cercare l’armonia che può riconfortarci:
In campagna
«Guarda l’ulivo», mi dice una voce,
«come si fa d’argento nella luce,
guarda il volo radente del fringuello
che planando si solleva nel raggio».
«Non indugiare sull’ombra», mi dice,
«non fare dell’autunno un tempo privo
di transiti».
«Come posso», rispondo,
«non scorgere il declino nel visibile,
nel volo la caduta?»
«Osserva», dice
«il piumaggio degli uccelli, le forme
dei frutti, osserva il disegno dei fiori:
c’è nella quiete del loro apparire,
un accordo con il ritmo del mondo».
Il vento poi si tace nelle siepi.