Ho sfogliato un bel carnet di idee prima di mettermi a scrivere.
E camminato, come sempre faccio, per ossigenare spirito e mente, chissà un incontro sopravvenuto nel frattempo, un odore, un paesaggio, una brezza d’aria risultassero essenziali alla scelta. Mi capita. E appunto è capitato: un’intuizione improvvisa.
Aspirate ad avere in voi l’attitudine che fu di Cristo Gesù, il quale, possedendo forma divina, non stimò una rapina l’uguaglianza con Dio, ma si svuotò assumendo forma di servo, divenendo somigliante agli uomini; e trovato, in aspetto, come un uomo, si abbassò a ubbidire fino a morte, e a morte di croce… Leggevo tra un passo e l’altro San Paolo, Lettera ai Filippesi. “Non stimò una rapina l’uguaglianza con Dio”: me lo sono ripetuto, mentre, salendo sul monte che domina Campobasso, sempre più netto mi si stagliava davanti agli occhi l’indisciplinato cementificio che è diventata la città.
Nel caos ben governato che mi fa sentire viva e sensata, tra i talismani di lettura che tolgo e metto in borsa a vicenda con Ovidio e Orazio e Sereni e la Achmatova, anche le lettere di San Paolo: mi fanno compagnia quando passeggio in cerca di un altrove fuori eppure dentro il mondo; apro e di lì intercetto pensieri nuovi, o avverto nuove passioni o raggiungo nuove serenità, sempre nuove o solo sopite e riscoperte.
Di San Paolo, delle sue lettere, qualche mia personalissima nota. Nulla di scientificamente fondato, perché non ho titolo alcuno per farlo, non studi teologici e di filologia neotestamentaria nel cassetto; la mia stessa approssimazione cristiana è da sempre accidentata, discontinua, imperfetta insomma. Pure, proprio nel percorso tortuoso e mai concluso della fede, meglio della ricerca delle fede, la lettura di San Paolo mi è stata ed è conforto e stimolo insieme, come per l’intelletto così per l’anima.
Non ho incontrato presto San Paolo, la lettura attenta delle sue lettere è stata un acquisto piuttosto tardivo, intrapresa in un periodo della mia vita in cui tutto era rimesso in causa e poi mai interrotta. Auspice un regalo di un amico, un’edizione economica delle lettere paoline con testo greco a fronte, vera e quasi ruvida nella traduzione dal greco, spogliata di quella “patina ecclesiale” che, depositata secolo dopo secolo sul testo primario, ne ha reso l’abito delle recite in chiesa come impastato.
Mi ha affascinato da subito il costituirsi del discorso paolino, fermo e imperioso per quanto ansante ed emotivamente intenso, fatto di chiarimenti e rimproveri, stretto tra dispute dottrinali e raccomandazioni: la distonia di una agitazione continua, eppure una sicurezza inaudita; ramificazioni ed intrichi, tematici quanto stilistici, ma non un momento di smarrimento, al contrario una stabilità inattaccabile poggiata su pochi, solidi fondamenti.
Primo, l’assunzione esclusiva di Gesù Cristo come termine di ogni giudizio, e anzi la vera e propria immedesimazione nella sua persona, l’integrazione nel suo corpo avvenuta nel battesimo della morte di Cristo, che è divenuto tutti gli uomini: una certezza che risolve ogni complicazione, che semplifica e sintetizza ogni argomento, riconducendolo all’essenziale, che è la salvezza.
E voi, che eravate cadaveri per le vostre cadute e il vostro prepuzio di carne, Egli fece rivivere insieme a Lui, perdonandoci tutte le nostre cadute; cancellò la firma che pesava su di noi nei decreti e la eliminò, inchiodandola alla croce; spogliò i principati e i poteri e li espose francamente al ludibrio, trionfando su di essi nella croce…
Quindi, più che la nascita e l’incarnazione del Cristo, la sua morte e, dopo la morte – e morte di croce! -, la resurrezione, punto centrale della visione salvifica di San Paolo, uno choc per ogni mente razionale.
Se è solo in questa vita che abbiamo sperato in Cristo, siamo i più miserabili tra tutti gli uomini…
La perentoria affermazione dello scandalo della fede come sublime non-senso: specie questo mi ha coinvolto; un motivo tutto moderno che ritorna spesso nelle lettere, dove, con procedimento paradossale del pensiero, la follia della fede è presentata quale stato di privilegio.
Dicono che siamo pazzi: sì, siamo pazzi di Dio…
Una logica “altra” che non ha e non vuole avere nulla a che vedere con quella dell’uomo saggio e filosofo, anzi enfatizza la rottura dal modello umano raziocinante diffuso nel mondo greco-romano del tempo, per mettere in chiaro la natura sconvolgente della fede.
Nessuno si inganni: se qualcuno fra voi ritiene di essere sapiente per questo tempo, diventi folle, per diventare sapiente. La sapienza di questo mondo infatti è follia davanti a Dio…
Il tutto avvolto nel fuoco della profezia di San Paolo, nel vigore comunicativo della sua parola, che irradia ed illumina, soprattutto quando tocca i nuclei della nuova religiosità e lì si infiamma, fino all’inno, che si stacca inaspettato dal contesto per seguire una sua ispirazione.
La prima lettura in assolo dell’inno alla carità, immaginifico, trascinante, è stata per me un’esperienza di bellezza, che mi piace ripetere periodicamente:
Se parlo le lingue degli uomini e quelle degli angeli, ma non ho carità, sono un bronzo che risuona e un timpano che tinnisce. E se ho la profezia e conosco tutti i misteri e tutta la scienza, e se ho intera la fede da spostare le montagne, ma non ho la carità, nulla io sono… la carità non si vanta, non è tronfia, non si comporta indecorosamente, non cerca il proprio tornaconto, non gioisce dell’ingiustizia ma gioisce della verità. Tutto sostiene, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità, che è amore senza discrimini.
Se ci apriamo ad una interrogazione sul destino comune e universale, la figura di San Paolo, misuratosi in prima persona con gli eventi di un tempo inquieto e decisivo per la storia dell’uomo, si presenta – io credo – vigorosa e la sua parola di fede, “un torrente che tutto raggiunge e schianta gli ostacoli”, come scrisse San Giovanni Crisostomo, capace di sfidare l’inerzia e l’ignavia per cui l’uomo si adegua e si rassegna all’errore e all’iniquità.☺
LucianaZingaro@libero.it
Ho sfogliato un bel carnet di idee prima di mettermi a scrivere.
E camminato, come sempre faccio, per ossigenare spirito e mente, chissà un incontro sopravvenuto nel frattempo, un odore, un paesaggio, una brezza d’aria risultassero essenziali alla scelta. Mi capita. E appunto è capitato: un’intuizione improvvisa.
Aspirate ad avere in voi l’attitudine che fu di Cristo Gesù, il quale, possedendo forma divina, non stimò una rapina l’uguaglianza con Dio, ma si svuotò assumendo forma di servo, divenendo somigliante agli uomini; e trovato, in aspetto, come un uomo, si abbassò a ubbidire fino a morte, e a morte di croce… Leggevo tra un passo e l’altro San Paolo, Lettera ai Filippesi. “Non stimò una rapina l’uguaglianza con Dio”: me lo sono ripetuto, mentre, salendo sul monte che domina Campobasso, sempre più netto mi si stagliava davanti agli occhi l’indisciplinato cementificio che è diventata la città.
Nel caos ben governato che mi fa sentire viva e sensata, tra i talismani di lettura che tolgo e metto in borsa a vicenda con Ovidio e Orazio e Sereni e la Achmatova, anche le lettere di San Paolo: mi fanno compagnia quando passeggio in cerca di un altrove fuori eppure dentro il mondo; apro e di lì intercetto pensieri nuovi, o avverto nuove passioni o raggiungo nuove serenità, sempre nuove o solo sopite e riscoperte.
Di San Paolo, delle sue lettere, qualche mia personalissima nota. Nulla di scientificamente fondato, perché non ho titolo alcuno per farlo, non studi teologici e di filologia neotestamentaria nel cassetto; la mia stessa approssimazione cristiana è da sempre accidentata, discontinua, imperfetta insomma. Pure, proprio nel percorso tortuoso e mai concluso della fede, meglio della ricerca delle fede, la lettura di San Paolo mi è stata ed è conforto e stimolo insieme, come per l’intelletto così per l’anima.
Non ho incontrato presto San Paolo, la lettura attenta delle sue lettere è stata un acquisto piuttosto tardivo, intrapresa in un periodo della mia vita in cui tutto era rimesso in causa e poi mai interrotta. Auspice un regalo di un amico, un’edizione economica delle lettere paoline con testo greco a fronte, vera e quasi ruvida nella traduzione dal greco, spogliata di quella “patina ecclesiale” che, depositata secolo dopo secolo sul testo primario, ne ha reso l’abito delle recite in chiesa come impastato.
Mi ha affascinato da subito il costituirsi del discorso paolino, fermo e imperioso per quanto ansante ed emotivamente intenso, fatto di chiarimenti e rimproveri, stretto tra dispute dottrinali e raccomandazioni: la distonia di una agitazione continua, eppure una sicurezza inaudita; ramificazioni ed intrichi, tematici quanto stilistici, ma non un momento di smarrimento, al contrario una stabilità inattaccabile poggiata su pochi, solidi fondamenti.
Primo, l’assunzione esclusiva di Gesù Cristo come termine di ogni giudizio, e anzi la vera e propria immedesimazione nella sua persona, l’integrazione nel suo corpo avvenuta nel battesimo della morte di Cristo, che è divenuto tutti gli uomini: una certezza che risolve ogni complicazione, che semplifica e sintetizza ogni argomento, riconducendolo all’essenziale, che è la salvezza.
E voi, che eravate cadaveri per le vostre cadute e il vostro prepuzio di carne, Egli fece rivivere insieme a Lui, perdonandoci tutte le nostre cadute; cancellò la firma che pesava su di noi nei decreti e la eliminò, inchiodandola alla croce; spogliò i principati e i poteri e li espose francamente al ludibrio, trionfando su di essi nella croce…
Quindi, più che la nascita e l’incarnazione del Cristo, la sua morte e, dopo la morte – e morte di croce! -, la resurrezione, punto centrale della visione salvifica di San Paolo, uno choc per ogni mente razionale.
Se è solo in questa vita che abbiamo sperato in Cristo, siamo i più miserabili tra tutti gli uomini…
La perentoria affermazione dello scandalo della fede come sublime non-senso: specie questo mi ha coinvolto; un motivo tutto moderno che ritorna spesso nelle lettere, dove, con procedimento paradossale del pensiero, la follia della fede è presentata quale stato di privilegio.
Dicono che siamo pazzi: sì, siamo pazzi di Dio…
Una logica “altra” che non ha e non vuole avere nulla a che vedere con quella dell’uomo saggio e filosofo, anzi enfatizza la rottura dal modello umano raziocinante diffuso nel mondo greco-romano del tempo, per mettere in chiaro la natura sconvolgente della fede.
Nessuno si inganni: se qualcuno fra voi ritiene di essere sapiente per questo tempo, diventi folle, per diventare sapiente. La sapienza di questo mondo infatti è follia davanti a Dio…
Il tutto avvolto nel fuoco della profezia di San Paolo, nel vigore comunicativo della sua parola, che irradia ed illumina, soprattutto quando tocca i nuclei della nuova religiosità e lì si infiamma, fino all’inno, che si stacca inaspettato dal contesto per seguire una sua ispirazione.
La prima lettura in assolo dell’inno alla carità, immaginifico, trascinante, è stata per me un’esperienza di bellezza, che mi piace ripetere periodicamente:
Se parlo le lingue degli uomini e quelle degli angeli, ma non ho carità, sono un bronzo che risuona e un timpano che tinnisce. E se ho la profezia e conosco tutti i misteri e tutta la scienza, e se ho intera la fede da spostare le montagne, ma non ho la carità, nulla io sono… la carità non si vanta, non è tronfia, non si comporta indecorosamente, non cerca il proprio tornaconto, non gioisce dell’ingiustizia ma gioisce della verità. Tutto sostiene, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità, che è amore senza discrimini.
Se ci apriamo ad una interrogazione sul destino comune e universale, la figura di San Paolo, misuratosi in prima persona con gli eventi di un tempo inquieto e decisivo per la storia dell’uomo, si presenta – io credo – vigorosa e la sua parola di fede, “un torrente che tutto raggiunge e schianta gli ostacoli”, come scrisse San Giovanni Crisostomo, capace di sfidare l’inerzia e l’ignavia per cui l’uomo si adegua e si rassegna all’errore e all’iniquità.☺
Ho sfogliato un bel carnet di idee prima di mettermi a scrivere.
E camminato, come sempre faccio, per ossigenare spirito e mente, chissà un incontro sopravvenuto nel frattempo, un odore, un paesaggio, una brezza d’aria risultassero essenziali alla scelta. Mi capita. E appunto è capitato: un’intuizione improvvisa.
Aspirate ad avere in voi l’attitudine che fu di Cristo Gesù, il quale, possedendo forma divina, non stimò una rapina l’uguaglianza con Dio, ma si svuotò assumendo forma di servo, divenendo somigliante agli uomini; e trovato, in aspetto, come un uomo, si abbassò a ubbidire fino a morte, e a morte di croce… Leggevo tra un passo e l’altro San Paolo, Lettera ai Filippesi. “Non stimò una rapina l’uguaglianza con Dio”: me lo sono ripetuto, mentre, salendo sul monte che domina Campobasso, sempre più netto mi si stagliava davanti agli occhi l’indisciplinato cementificio che è diventata la città.
Nel caos ben governato che mi fa sentire viva e sensata, tra i talismani di lettura che tolgo e metto in borsa a vicenda con Ovidio e Orazio e Sereni e la Achmatova, anche le lettere di San Paolo: mi fanno compagnia quando passeggio in cerca di un altrove fuori eppure dentro il mondo; apro e di lì intercetto pensieri nuovi, o avverto nuove passioni o raggiungo nuove serenità, sempre nuove o solo sopite e riscoperte.
Di San Paolo, delle sue lettere, qualche mia personalissima nota. Nulla di scientificamente fondato, perché non ho titolo alcuno per farlo, non studi teologici e di filologia neotestamentaria nel cassetto; la mia stessa approssimazione cristiana è da sempre accidentata, discontinua, imperfetta insomma. Pure, proprio nel percorso tortuoso e mai concluso della fede, meglio della ricerca delle fede, la lettura di San Paolo mi è stata ed è conforto e stimolo insieme, come per l’intelletto così per l’anima.
Non ho incontrato presto San Paolo, la lettura attenta delle sue lettere è stata un acquisto piuttosto tardivo, intrapresa in un periodo della mia vita in cui tutto era rimesso in causa e poi mai interrotta. Auspice un regalo di un amico, un’edizione economica delle lettere paoline con testo greco a fronte, vera e quasi ruvida nella traduzione dal greco, spogliata di quella “patina ecclesiale” che, depositata secolo dopo secolo sul testo primario, ne ha reso l’abito delle recite in chiesa come impastato.
Mi ha affascinato da subito il costituirsi del discorso paolino, fermo e imperioso per quanto ansante ed emotivamente intenso, fatto di chiarimenti e rimproveri, stretto tra dispute dottrinali e raccomandazioni: la distonia di una agitazione continua, eppure una sicurezza inaudita; ramificazioni ed intrichi, tematici quanto stilistici, ma non un momento di smarrimento, al contrario una stabilità inattaccabile poggiata su pochi, solidi fondamenti.
Primo, l’assunzione esclusiva di Gesù Cristo come termine di ogni giudizio, e anzi la vera e propria immedesimazione nella sua persona, l’integrazione nel suo corpo avvenuta nel battesimo della morte di Cristo, che è divenuto tutti gli uomini: una certezza che risolve ogni complicazione, che semplifica e sintetizza ogni argomento, riconducendolo all’essenziale, che è la salvezza.
E voi, che eravate cadaveri per le vostre cadute e il vostro prepuzio di carne, Egli fece rivivere insieme a Lui, perdonandoci tutte le nostre cadute; cancellò la firma che pesava su di noi nei decreti e la eliminò, inchiodandola alla croce; spogliò i principati e i poteri e li espose francamente al ludibrio, trionfando su di essi nella croce…
Quindi, più che la nascita e l’incarnazione del Cristo, la sua morte e, dopo la morte – e morte di croce! -, la resurrezione, punto centrale della visione salvifica di San Paolo, uno choc per ogni mente razionale.
Se è solo in questa vita che abbiamo sperato in Cristo, siamo i più miserabili tra tutti gli uomini…
La perentoria affermazione dello scandalo della fede come sublime non-senso: specie questo mi ha coinvolto; un motivo tutto moderno che ritorna spesso nelle lettere, dove, con procedimento paradossale del pensiero, la follia della fede è presentata quale stato di privilegio.
Dicono che siamo pazzi: sì, siamo pazzi di Dio…
Una logica “altra” che non ha e non vuole avere nulla a che vedere con quella dell’uomo saggio e filosofo, anzi enfatizza la rottura dal modello umano raziocinante diffuso nel mondo greco-romano del tempo, per mettere in chiaro la natura sconvolgente della fede.
Nessuno si inganni: se qualcuno fra voi ritiene di essere sapiente per questo tempo, diventi folle, per diventare sapiente. La sapienza di questo mondo infatti è follia davanti a Dio…
Il tutto avvolto nel fuoco della profezia di San Paolo, nel vigore comunicativo della sua parola, che irradia ed illumina, soprattutto quando tocca i nuclei della nuova religiosità e lì si infiamma, fino all’inno, che si stacca inaspettato dal contesto per seguire una sua ispirazione.
La prima lettura in assolo dell’inno alla carità, immaginifico, trascinante, è stata per me un’esperienza di bellezza, che mi piace ripetere periodicamente:
Se parlo le lingue degli uomini e quelle degli angeli, ma non ho carità, sono un bronzo che risuona e un timpano che tinnisce. E se ho la profezia e conosco tutti i misteri e tutta la scienza, e se ho intera la fede da spostare le montagne, ma non ho la carità, nulla io sono… la carità non si vanta, non è tronfia, non si comporta indecorosamente, non cerca il proprio tornaconto, non gioisce dell’ingiustizia ma gioisce della verità. Tutto sostiene, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità, che è amore senza discrimini.
Se ci apriamo ad una interrogazione sul destino comune e universale, la figura di San Paolo, misuratosi in prima persona con gli eventi di un tempo inquieto e decisivo per la storia dell’uomo, si presenta – io credo – vigorosa e la sua parola di fede, “un torrente che tutto raggiunge e schianta gli ostacoli”, come scrisse San Giovanni Crisostomo, capace di sfidare l’inerzia e l’ignavia per cui l’uomo si adegua e si rassegna all’errore e all’iniquità.☺
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