Insegnanti, non missionari
6 Settembre 2024
laFonteTV (3661 articles)
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Insegnanti, non missionari

Settembre è tornato e l’anno scolastico è ormai alle porte.
Mi trovo a riflettere, ancora una volta, sul nostro mestiere, che a giorni si misurerà di nuovo con i volti ancora assonnati, ma giovani e vivi dei nostri ragazzi. Un mestiere a pagamento, ormai. Dove un certificato di ottima conoscenza della lingua si ottiene così, basta che apri il portafoglio, e costa pure salato, sia a te che paghi sia ai tuoi futuri alunni, che avranno in cattedra uno che di inglese ne sa meno di loro, ma ha ormai il famigerato posto statale. Siamo questo, per la gente, ormai e più che mai.
Ma dove siamo finiti, mi chiedo ora che è settembre, e il primo collegio mi aspetta, e ci ritroveremo, ognuno con la sua estate alle spalle, con i suoi progetti davanti, con le sue ferite (quelle che terrà fuori dalla porta anche quest’anno, e i ragazzi non lo sapranno) e con la sua dignità, con quei nodi che da giugno giacciono ancora lì in attesa di essere sciolti, con qualche sorriso sincero di bentornato, con il suo bagaglio di esperienza costruita un mattoncino alla volta, dopo le sconfitte, i sacrifici, le soddisfazioni, gli scontri, le notti insonni per quel ragazzo che piangeva a ricreazione, le letture che ci hanno arricchiti e formati.
Settembre, dicevamo. Primo collegio. Il trucco più curato e la messa in piega fresca (che mica è facile, poi, essere così ordinati nel quotidiano, quando la mattina scappi come una furia!), agende intonse su cui appuntare i primi impegni con penne intonse o matite intonse (perché anche a noi, non solo ai nostri alunni, piace comprare la cancelleria nuova di zecca), le ultime sfumature dell’ abbronzatura che va via al pari dell’estate, gli alunni da ritrovare (e già abbiamo in testa che quest’anno faremo questo e quest’altro) e quelli da conoscere (e come saranno? Mo mi informo con la collega che li ha avuti l’anno scorso), i colleghi transitori che non sono tornati e li ricordi con un po’ di nostalgia, facce nuove, facce storiche, il gruppo-docenti su whatsapp che torna a bollire senza darti manco il tempo di capire, la pila di libri che ritrovo così come l’avevo lasciata e l’armadietto che dovevo riordinare a giugno e lo svuoto adesso.
I piccoli riti di ogni anno, anche quest’anno. Mi preparo.
Amo il mio lavoro, l’ho scelto a dire il vero “per dovere” ventiquattro anni fa. Ma, come in tanti snodi della mia vita, ho presto capito che era la strada per me, e che dietro quella scelta c’era una regìa sapiente che conosceva i miei desideri più profondi.
Lo amo, ma non sopporto più che sia svilito in questo modo, preda di una fame di lavoro legittima, per carità, di tanti, ma sfruttata dal sistema per avere consenso, sfornando futuri docenti privi di qualsiasi competenza: pagano, comprano di tutto, di quel tutto sanno poco e niente, ma per lo Stato va bene così. Per lo Stato possono entrare in aula e “fare lezione”. Dei nostri ragazzi, tanto, a nessuno importa veramente. Uno Stato che dà ai suoi giovani un’istruzione annacquata, posticcia, inconsistente, uno Stato che mortifica e umilia la sua classe docente con percorsi di formazione come quelli che attualmente funzionano, e che dice “Nessuna competenza pretendo, vi inforno tutti, basta che pagate, però non chiedete un riconoscimento sociale dignitoso e non ve ne uscite con questa storia dello stipendio eh”, ma che Stato è?
Settembre, quindi. A noi due.
Siamo i soliti fessi, ancora una volta, ancora un settembre. Perché io lo so, lavoreremo come se guadagnassimo quello che ci spetterebbe, come se lo Stato ci riconoscesse di portare sulle spalle, in parte, il futuro del nostro paese, visto che prepariamo ogni giorno chi ne farà parte e ne reggerà le sorti. Oh sì. Le abilitazioni, le certificazioni, i corsi… continueranno furiosi, spudorati, ma noi lavoreremo, perché siamo abituati a non farla pagare ai nostri ragazzi, organizzeremo attività, faremo ore in più, ci fermeremo a parlare con un genitore come fossimo assistenti sociali o psicologi, ci chiederanno di più e noi saremo lì.
Però non chiamateci missionari, no, questa parola non ci piace. Non lo facciamo “per vocazione”. Mi sa di gratuito, di “volémose bene”, di buonistico. No, missionari folgorati sulla via di Damasco no, non ci sto. Capiamoci: è vero che noi lavoreremo anche se il nostro mestiere è da decenni svilito da una classe dirigente che non vuole dei giovani colti, critici e pensanti, e – di conseguenza – non ha alcun interesse a valorizzare i suoi docenti. Ma non lo faremo perché ci piace l’aggratis e perché siamo brava gente: lo facciamo perché siamo professionisti seri, che hanno a cuore l’ educazione e il sistema formativo, ci credono, lo coltivano a loro spese e non smettono di perseguire il loro obiettivo: realizzare il diritto alla felicità dei nostri giovani, e contribuire alla formazione di una futura classe dirigente più in gamba e saggia di quella attuale. Non chiamateci missionari, siamo piuttosto dei guerrieri resilienti. In trincea si canta, si brinda… e si tirano fuori meravigliose poesie.
Buon anno scolastico, allora.☺

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