la classe
22 Marzo 2010 Share

la classe

 

Appena sui grandi schermi il film francese La classe, vincitore a Cannes della Palma d’Oro 2008, ci siamo precipitate, io e un’amica collega di lavoro. Non tanto per la sciccheria culturale – in genere svicoliamo, temendo tiritere introflesse -, piuttosto sospinte dal narcisismo velato eppur tenace che distingue gli insegnanti, poco poco si superi la monade individuale.

Cercavamo, chissà, attestati eterogenei di eroismo professionale, o ci allettava l’idea di piangerci poi addosso, sornione e ridenti però, vittime compiaciute di indubbia laboriosità.

È tendenza, e non degli insegnanti solo.

Evasa ogni speranza: siamo uscite dal cinema ad orecchie basse, una loquela certo ridotta rispetto al solito.

Perché La classe non lascia spazio ai toni comico-patetico-eroici a tutto tondo con cui d’abitudine si rappresenta la scuola, “semplicemente” riproduce dall’interno e da vicino la realtà di una classe come è ora lì, nella periferia francese, e verisimilmente sarebbe altrove: una realtà molteplice e complessa da tollerare al limite una registrazione epigrafica, esilarante a tratti e spesso amara, con ragioni che non ci sono e parti che si passano la ragione a momenti alterni.

Non so se La classe possa dirsi un documentario, un reality, una realistica fiction; l’angusta portata del mio giudizio suggerisce che è un film bello, perché bella è l’idea di descrivere onestamente, così, nella sua banale nudità, il quotidiano scolastico. Punto.

La classe è tratto da un libro, edito in Francia nel 2006 col titolo Entre les murs – le mura della scuola? della periferia?-, comodamente tradotto in italiano col titolo La classe.

L’ho letto avendo già visto il film, e mi è piaciuto per gli stessi motivi che mi hanno reso bella la sua versione cinematografica: autentico, vivo, acuto, dramma e divertimento.

Autore del libro è François Begaudeau, lo stesso attore che nell’omonimo film interpreta l’insegnante di francese di una media superiore della periferia parigina; professione che egli effettivamente svolge o almeno ha svolto nel periodo di cui film e libro in primis raccontano.

Ecco spiegata la quasi perfetta identità narrativa che, fatte salve le necessarie variazioni dovute alla diversità dei codici impiegati, lega tra loro le due opere: entrambe si svolgono sulla traccia di una mimesi realistica “distanziata”- direi -, decantata e purificata da lirismi esasperati e grossolanità marchiane, che guadagna forse al libro rispetto al film un surplus di ironia e humor, complice il dialogo alunni-prof / prof-prof / prof-alunni-preside, che, sorta di rap incantevole e bizzarro, accompagna pressoché ininterrotto la narrazione.

“Come si chiama quando si dice il contrario di quello che si pensa facendo capire che si pensa il contrario di quello che si dice?”.

“Prof,  la sua domanda mi fa venire il mal di testa”.

“Qual è la domanda, prof?”.

“Forse ironia?”

“Be’ sì, è esattamente questo. Provate a fare una frase ironica”.

“Lei è bello”.

“Grazie, ma la frase ironica?”.

“Lei è bello”.

“Ok, perfetto, grazie tante”.

O ancora:

“Prof, fa troppo caldo, facciamo lezione fuori”.

“Certo, vuoi anche una coca?”.

“Lei esagera, prof.”.

L’impresa mimetica, minuziosamente elaborata, sorregge fin la struttura del racconto.

Ci ho messo un po’ a capire il perché del singolare titolo dei cinque capitoli che costituiscono il libro. Venticinque, Ventotto, Ventisei, Ventisette, Trenta, per una sommatoria di centotrentasei: preciso il numero di giorni scolastici che lo scrupoloso professore calcola ad inizio d’anno, quando con efficiente automatismo, come assolvendo ad una meccanica trita e terapeutica insieme, apre la busta che racchiude il suo destino scolastico in termini di orario settimanale, giorno libero, convocazioni extra-didattiche.

È la recita concisa di questo rito ad inaugurare la narrazione, che si svolge poi tutta dentro la scuola,  esclusi gli intarsi introduttivi di ciascuno dei capitoli, in cui il professor Bégaudeau riprende se stesso al mattino uscire dalla metro, entrare nella brasserie, osservarne le presenze umane nelle loro pose peculiari, avviarsi verso la scuola, anche in questo caso emulando il logoro, ma vario, spiazzante e tuttavia confortevole ripetersi della quotidianità.

Si cominciano quindi a sfogliare le “mazzette” dei giorni scolastici individuate dai singoli capitoli, per distinguervi dal principio alla fine dell’anno gli eventi più ragguardevoli, emersi da una serie di eventi minori e di natura simile: gli alunni attenti e coinvolti, o annoiati al punto che la campanella sortisce in classe l’effetto di un petardo in una voliera assopita, le raccomandazioni pedagogiche del preside, a volte francamente ossessive, gli sfoghi surreali e consumati dei professori, le cui dinamiche di conversazione in sala docenti sono invariabilmente determinate dalle bizze di una fotocopiatrice mai pronta all’uso, e gli sforzi di un insegnante preparato e sensibile, lo stesso Bégaudeau, che ambirebbe ad istruire i suoi allievi a proposito di francese corretto e funzionale agli scopi, ma nemmeno vuole trasmettere mere nozioni, e si sforza perciò di assecondare le singolarità dei ragazzi, di sollevarne lo spirito critico.

La missione è compiuta talora, spesso, invece, la comunicazione studenti-docente è abortita, vuoi il naturale gap da sempre esistito, naturalmente esistente, tra la fissità del sapere scolastico e la fluidità dell’immaginario studentesco, vuoi per motivi insulsi, che vanno dalla noia, al sonno, ai due sopraddetti e addizionati (io avevo dormito male, loro dormivano, una specie di ritornello del prof, da una capitolo a quello successivo).

E l’autore-professore non si schiera né da una parte all’altra. Prende atto della difficoltà di insegnare e di imparare, di parlare e capirsi, tanto più in un ambiente multiforme quale quello della periferia parigina, dove è un pullulare di culture, etnie, società.

Le auto-descrizioni che gli allievi porgono a Bégaudeau (un classico di inizio di anno, e lui, il prof, confessa di essere stato titubante al momento della consegna alla lavagna: autodescrizione con o senza trattino?) parlano da sole. Souleymane, algerino: “…da grande vorrei realizzarmi nella vita nel campo dei condizionatori e soprattutto non mi piacciono le congiunzioni…”; Frida, francese madrelingua araba (chissà di dove):“…a livello di carattere sono molto buona e molto vivibile, ma i miei genitori dicono che rifletto troppo…”; Alyssa, francese (o italiana):“…vorrei essere un medico umanitario. Non dico altro e lascio giudicare da sé…”; Ming, cinese: “…i miei punti buoni è sono gentile e mi impegno. I miei punti deboli è sono curioso…”. E così via.

Le sue sconfitte il prof. deve pur incassarle, lui che fotografa gli alunni dagli stampati in cifre o lettere cubitali e colorate su maglie e deretani; e le incassa, dissimulando con dignità.

Un giorno, mentre sciorina la consueta frase-esempio di presente con valore di futuro “Bill domani parte per Boston” si sente richiamato da un alunno, dal fondo della classe : “Perché è sempre Bill o cose del genere? Perché non è mai, che ne so, Rachid o tipo così?”. Brontola Bégaudeau, però si corregge : “Se comincio a voler rappresentare tutte le nazionalità con i nomi non ce la farò più. Ma vabbe’, mettiamo Rachid per far piacere a Djibiril”.

Qualche mormorio di insoddisfazione diffuso tra i ragazzi, poi si passa oltre.

Per fare un tavolo ci vuole tutto, mi canticchio dentro felice quando guardo mia nipote. Ci vuole tutto.

A presto.☺

LucianaZingaro@libero.it

 

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