la crisi idrica
15 Aprile 2010 Share

la crisi idrica

 

Bere un bicchiere d’acqua è un gesto quotidiano, quasi banale. Come molte cose di elevata importanza, ma che insistono quotidianamente nella vita di ogni individuo, attirano scarsa attenzione. Eppure cosa accadrebbe se per quel bicchiere d’acqua ci si dovesse scontrare con altre persone? Cosa accadrebbe se questa risorsa dovesse divenire rara?

Sebbene sembri una domanda oziosa, è giunta l’ora di iniziare a rispondervi, date le evidenze sulla crisi dell’acqua che oramai non sono più della sola comunità scientifica. Da qualche tempo la questione sta divenendo un fatto chiaramente misurabile e di conseguenza una evidenza scientifica non troppo sfocata per non essere anche una evidenza economica. Ormai non si tratta più di interpretare complicati modelli meteorologici, intrecciati tra mille variabili e quindi con effetti di difficile attribuzione all’attività antropica, ma di misurare semplici gradienti di temperatura, la distribuzione e l’intensità delle precipitazioni; le falde acquifere negli ultimi cinquanta anni si sono abbassate di un metro in media negli Stati Uniti e circa un metro e mezzo in Cina. Sembrerebbe, e qui il condizionale è licenza ironica, che il tasso di prelievo dell’acqua dolce abbia superato negli ultimi cinquanta anni il suo tasso di rinnovo, ossia che l’uomo con le sue attività consumerebbe più acqua di quanta ne risulti disponibile con la pioggia. Questo avrebbe come effetto l’abbassamento di quelle che sono le riserve idriche naturali, ossia i ghiacciai e le falde già minacciati dal riscaldamento globale.

Allora, dato che oramai persino gli scienziati più restii si sono convinti dell’esistenza reale del problema e che al cittadino comune basta guardare i dati pluviometrici (o più semplicemente la terra nel mese di Marzo) per avere la consapevolezza, voi pensereste che l’homo sapiens stia utilizzando la caratteristica che lo distingue dalla semplice bestia per porre rimedio. Invece non è così. In termini economici potremmo dire che sta ricorrendo al neoliberismo per risolvere il problema, sta privatizzando l’acqua, dopo averla trasformata da una risorsa pienamente rinnovabile ad una risorsa parzialmente rinnovabile. L’acqua sempre più putrida, perché raccolta sempre più in profondità, ha bisogno di un trattamento sanitario e di essere trasportata da dove è abbondante a dove è scarsa, per cui ci dovrà essere qualcuno che fornirà questo servizio. Se ci sarà minore abbondanza bisognerà probabilmente che qualcuno costruisca faraonici desalinatori per rendere fruibile anche l’acqua del mare. I moderni stati hanno accettato la decisione che questo qualcuno dovranno essere i capitali privati. Grandi multinazionali (le uniche che hanno una dimensione grande quanto il problema) quali Nestlè, Coca Cola, Pepsi Cola e “Wodaprom”, fanciulla affiliata di Gasprom, potranno gestire l’acqua e sottoporla alle leggi di mercato, ossia rendere la sua distribuzione (nonché la distribuzione della sua qualità) ineguale tra le classi di reddito, tra gli stati, tra i settori della produttività. Questo non è un problemino di previsione economica ma una spiacevole realtà già esistente non solo in molti paesi europei, dove si assiste al curioso paradosso dell’acqua che costa più della birra, ma anche, e soprattutto, per quel miliardo e mezzo di persone che oggi non hanno accesso all’acqua potabile.

Vi è un’altra questione da considerare, oltre al trascurabile problema della distribuzione dell’acqua come risorsa scarsa e oltre ai cinquemila bambini che muoiono per mancanza di acqua potabile ogni giorno. Questo problema si chiama crisi energetica. L’acqua infatti dovrà essere impiegata (in quantità massicce) nei processi industriali e agricoli che daranno vita al paniere energetico che sostituirà il petrolio man mano che si andrà esaurendo. Questo paniere è costituito da tutte le energie rinnovabili ma in particolare, per quanto riguarda la correlazione con il problema idrico, dalle cosiddette biomasse. Si pensa che, per poter produrre tutto il cibo sufficiente all’umanità, un terzo della superficie agricola attualmente disponibile debba essere coltivata per produrre carburanti agricoli. I carburanti prodotti sarebbero necessari per sostenere la produzione agricola dei restanti due terzi. Questo è dovuto al fatto che il rapporto tra energia ricavata e investita,  per quanto concerne colture come la colza, la palma da olio ed altre utilizzate per produrre biodiesel, varia da tre a sei circa. Oggi si ha una produzione di cibo che basterebbe per circa undici miliardi di persone, e che è soggetta alla iniqua distribuzione geografica e di reddito che crea il liberismo, della quale un terzo verrebbe sacrificato per alimentare le macchine agricole (qualora non si scoprano nuove soluzioni), senza le quali la moderna agricoltura non esisterebbe. In questo quadro che delinea approssimativamente il problema della crisi energetica correlato alle esigenze alimentari (che sono primarie per l’uomo) l’acqua ha una importanza enorme.

Quale soluzione per il futuro? Il buon senso, arma sintetica spesso più potente di ingegneristiche pianificazioni, ci dice che sarà necessario che la risorsa idrica, oltre ad essere distribuita equamente per il consumo tal quale, venga reindirizzata verso gli usi più impellenti per l’uomo, ossia nella produzione di energia e nell’agricoltura per produrre mezzi e cibo. Sarà necessario che l’uomo prelevi meno acqua di quanta il ciclo naturale riesca a fornirne eliminando produzioni inutili e sprechi anche domestici.

Ma potrà un modello neoliberista garantire questa banale redistribuzione? La risposta è no perché la logica intima del liberismo è quella dell’aumento del capitale finanziario e della allocazione di beni e risorse in base al reddito, filosofia che va in netta contrapposizione con una equa distribuzione che servirebbe non solo ad affrontare la crisi, ma anche ad avere più giustizia sociale.  ☺

 

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