Nelle sue lettere, Paolo continuamente si riferisce ai membri della comunità a cui scrive chiamandoli fratelli, termine che è entrato anche nella liturgia, diventando in tal modo un termine convenzionale e anche svuotato della sua densità originaria. La fraternità a cui Paolo si riferisce è una modalità nuova di vivere le relazioni che va oltre le convenzioni e le divisioni sociali, determinata dall’inserimento in Gesù Cristo: “Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,26-28).
Il legame tra i cristiani non è determinato da simpatie personali, dalla scelta di costituire un’associazione o un club per difendere comuni interessi, ma dal legame che si è instaurato con Dio Padre tramite Gesù Cristo: “Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm 8,17). Ma cosa significa partecipare alle sofferenze di Cristo? Per molto tempo nella nostra tradizione cristiana ciò ha significato immedesimarsi nell’evento storico della Passione, così da rivivere annualmente la sofferenza catartica del venerdì santo per tornare alla vita di prima a pasqua, come avveniva nei riti di morte e resurrezione pagani che rappresentavano i cicli della natura. Tuttora, soprattutto nei nostri paesi latini, continuiamo a perpetuare questo rito, anche se ormai non se ne coglie più il significato. L’ideologia che stava dietro era quella del pensare alla propria salvezza, ad espiare i propri peccati per evitare i castighi di Dio e ottenere un posto nel paradiso. Ma non è questo il senso che Paolo attribuiva alla partecipazione alle sofferenze di Cristo. In realtà questo concetto riguarda le conseguenze della propria adesione al vangelo: all’accoglienza del perdono gratuito di Dio (di ciò si occupa la prima parte della lettera ai Romani, fino al capitolo 11), corrisponde una mia risposta che passa necessariamente per il mio mettermi concretamente a servizio della salvezza dell’altro, facendo mio l’atteggiamento di Gesù che, dice Paolo, “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Si tratta in sintesi, di quella “fede che agisce per mezzo dell’amore” (Gal 5,6).
Detto così, si rischia di cadere di nuovo in una filantropia disincarnata, in un amore tanto universale quanto evanescente. Per questo, quando Paolo tratteggia le conseguenze dell’accoglienza di questo amore gratuito che perdona (come fa in Rm 12-15), scende nel concreto delle situazioni relazionali, tratteggiando un vero e proprio manifesto dell’agape (che traduciamo con carità o amore) che culmina nella sintesi di tutti i comandamenti in Rm 13,9-10: “Qualsiasi comandamento si riassume in queste parole: amerai il prossimo tuo come te stesso. L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore”. In Rm 12 si dice che l’amore è rivolto a tutti, ma a cominciare da quelli più vicini, i membri della comunità, che Paolo chiama ancora una volta “fratelli”.
È proprio a partire da questa focalizzazione sulla comunità che Paolo si pone il problema del rapporto tra forti e deboli nella fede: membri, cioè, della stessa comunità ma con una diversa convinzione riguardo all’adesione al vangelo (Rm 14,1-15,6). Da uno che rimprovera chi vuole imporre la pratica della legge, ci si aspetterebbe un’esortazione alla coerenza rivolta a chi ha ancora l’abitudine di rispettare i divieti alimentari della legge di Mosè e il rispetto dei tempi sacri. Invece Paolo chiede la coerenza a chi è libero da queste convenzioni superate, non ovviamente con il sistema che hanno abbandonato, ma con l’adesione a Cristo Gesù che non è morto solo per i perfetti. Il criterio per agire, dice Paolo, è l’attenzione per la fragilità nella fede di un fratello “per il quale Cristo è morto” (Rm 14,15). La partecipazione alle sofferenze di Cristo, quindi, riguarda la condivisione del progetto salvifico universale che Gesù è venuto a realizzare, secondo cui non sono le risposte umane a determinare l’appartenenza a Cristo, bensì Dio che vuole la salvezza di tutti. La fraternità cristiana, in quest’ottica, non è data dalla simpatia per l’altro (cosa che è umana, anche nel senso paolino quindi, di ferita dal peccato), ma dall’adesione convinta al progetto di Gesù, dal fare proprie, direbbe Paolo, le sue sofferenze, che porta a vedere nell’altro non un semplice appartenente alla stessa specie umana, ma un fratello per cui Cristo è morto.
La fraternità cristiana o ha un fondamento in Gesù o semplicemente non è, in quanto sarebbe continuamente ridefinita da criteri umani di appartenenza a un partito, a una nazione, a una razza, ma anche a una religione, terreni fertili per ogni guerra. La dialettica stimolante fra deboli e forti di una comunità costituisce per il cristiano la palestra per aiutare l’umanità a superare ogni tipo di divisione, nella consapevolezza grata che Gesù è morto per tutti, veramente tutti e tutti vivono per lui. ☺
Nelle sue lettere, Paolo continuamente si riferisce ai membri della comunità a cui scrive chiamandoli fratelli, termine che è entrato anche nella liturgia, diventando in tal modo un termine convenzionale e anche svuotato della sua densità originaria. La fraternità a cui Paolo si riferisce è una modalità nuova di vivere le relazioni che va oltre le convenzioni e le divisioni sociali, determinata dall’inserimento in Gesù Cristo: “Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,26-28).
Il legame tra i cristiani non è determinato da simpatie personali, dalla scelta di costituire un’associazione o un club per difendere comuni interessi, ma dal legame che si è instaurato con Dio Padre tramite Gesù Cristo: “Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm 8,17). Ma cosa significa partecipare alle sofferenze di Cristo? Per molto tempo nella nostra tradizione cristiana ciò ha significato immedesimarsi nell’evento storico della Passione, così da rivivere annualmente la sofferenza catartica del venerdì santo per tornare alla vita di prima a pasqua, come avveniva nei riti di morte e resurrezione pagani che rappresentavano i cicli della natura. Tuttora, soprattutto nei nostri paesi latini, continuiamo a perpetuare questo rito, anche se ormai non se ne coglie più il significato. L’ideologia che stava dietro era quella del pensare alla propria salvezza, ad espiare i propri peccati per evitare i castighi di Dio e ottenere un posto nel paradiso. Ma non è questo il senso che Paolo attribuiva alla partecipazione alle sofferenze di Cristo. In realtà questo concetto riguarda le conseguenze della propria adesione al vangelo: all’accoglienza del perdono gratuito di Dio (di ciò si occupa la prima parte della lettera ai Romani, fino al capitolo 11), corrisponde una mia risposta che passa necessariamente per il mio mettermi concretamente a servizio della salvezza dell’altro, facendo mio l’atteggiamento di Gesù che, dice Paolo, “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Si tratta in sintesi, di quella “fede che agisce per mezzo dell’amore” (Gal 5,6).
Detto così, si rischia di cadere di nuovo in una filantropia disincarnata, in un amore tanto universale quanto evanescente. Per questo, quando Paolo tratteggia le conseguenze dell’accoglienza di questo amore gratuito che perdona (come fa in Rm 12-15), scende nel concreto delle situazioni relazionali, tratteggiando un vero e proprio manifesto dell’agape (che traduciamo con carità o amore) che culmina nella sintesi di tutti i comandamenti in Rm 13,9-10: “Qualsiasi comandamento si riassume in queste parole: amerai il prossimo tuo come te stesso. L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore”. In Rm 12 si dice che l’amore è rivolto a tutti, ma a cominciare da quelli più vicini, i membri della comunità, che Paolo chiama ancora una volta “fratelli”.
È proprio a partire da questa focalizzazione sulla comunità che Paolo si pone il problema del rapporto tra forti e deboli nella fede: membri, cioè, della stessa comunità ma con una diversa convinzione riguardo all’adesione al vangelo (Rm 14,1-15,6). Da uno che rimprovera chi vuole imporre la pratica della legge, ci si aspetterebbe un’esortazione alla coerenza rivolta a chi ha ancora l’abitudine di rispettare i divieti alimentari della legge di Mosè e il rispetto dei tempi sacri. Invece Paolo chiede la coerenza a chi è libero da queste convenzioni superate, non ovviamente con il sistema che hanno abbandonato, ma con l’adesione a Cristo Gesù che non è morto solo per i perfetti. Il criterio per agire, dice Paolo, è l’attenzione per la fragilità nella fede di un fratello “per il quale Cristo è morto” (Rm 14,15). La partecipazione alle sofferenze di Cristo, quindi, riguarda la condivisione del progetto salvifico universale che Gesù è venuto a realizzare, secondo cui non sono le risposte umane a determinare l’appartenenza a Cristo, bensì Dio che vuole la salvezza di tutti. La fraternità cristiana, in quest’ottica, non è data dalla simpatia per l’altro (cosa che è umana, anche nel senso paolino quindi, di ferita dal peccato), ma dall’adesione convinta al progetto di Gesù, dal fare proprie, direbbe Paolo, le sue sofferenze, che porta a vedere nell’altro non un semplice appartenente alla stessa specie umana, ma un fratello per cui Cristo è morto.
La fraternità cristiana o ha un fondamento in Gesù o semplicemente non è, in quanto sarebbe continuamente ridefinita da criteri umani di appartenenza a un partito, a una nazione, a una razza, ma anche a una religione, terreni fertili per ogni guerra. La dialettica stimolante fra deboli e forti di una comunità costituisce per il cristiano la palestra per aiutare l’umanità a superare ogni tipo di divisione, nella consapevolezza grata che Gesù è morto per tutti, veramente tutti e tutti vivono per lui. ☺
Nelle sue lettere, Paolo continuamente si riferisce ai membri della comunità a cui scrive chiamandoli fratelli, termine che è entrato anche nella liturgia, diventando in tal modo un termine convenzionale e anche svuotato della sua densità originaria.
Nelle sue lettere, Paolo continuamente si riferisce ai membri della comunità a cui scrive chiamandoli fratelli, termine che è entrato anche nella liturgia, diventando in tal modo un termine convenzionale e anche svuotato della sua densità originaria. La fraternità a cui Paolo si riferisce è una modalità nuova di vivere le relazioni che va oltre le convenzioni e le divisioni sociali, determinata dall’inserimento in Gesù Cristo: “Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,26-28).
Il legame tra i cristiani non è determinato da simpatie personali, dalla scelta di costituire un’associazione o un club per difendere comuni interessi, ma dal legame che si è instaurato con Dio Padre tramite Gesù Cristo: “Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm 8,17). Ma cosa significa partecipare alle sofferenze di Cristo? Per molto tempo nella nostra tradizione cristiana ciò ha significato immedesimarsi nell’evento storico della Passione, così da rivivere annualmente la sofferenza catartica del venerdì santo per tornare alla vita di prima a pasqua, come avveniva nei riti di morte e resurrezione pagani che rappresentavano i cicli della natura. Tuttora, soprattutto nei nostri paesi latini, continuiamo a perpetuare questo rito, anche se ormai non se ne coglie più il significato. L’ideologia che stava dietro era quella del pensare alla propria salvezza, ad espiare i propri peccati per evitare i castighi di Dio e ottenere un posto nel paradiso. Ma non è questo il senso che Paolo attribuiva alla partecipazione alle sofferenze di Cristo. In realtà questo concetto riguarda le conseguenze della propria adesione al vangelo: all’accoglienza del perdono gratuito di Dio (di ciò si occupa la prima parte della lettera ai Romani, fino al capitolo 11), corrisponde una mia risposta che passa necessariamente per il mio mettermi concretamente a servizio della salvezza dell’altro, facendo mio l’atteggiamento di Gesù che, dice Paolo, “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Si tratta in sintesi, di quella “fede che agisce per mezzo dell’amore” (Gal 5,6).
Detto così, si rischia di cadere di nuovo in una filantropia disincarnata, in un amore tanto universale quanto evanescente. Per questo, quando Paolo tratteggia le conseguenze dell’accoglienza di questo amore gratuito che perdona (come fa in Rm 12-15), scende nel concreto delle situazioni relazionali, tratteggiando un vero e proprio manifesto dell’agape (che traduciamo con carità o amore) che culmina nella sintesi di tutti i comandamenti in Rm 13,9-10: “Qualsiasi comandamento si riassume in queste parole: amerai il prossimo tuo come te stesso. L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore”. In Rm 12 si dice che l’amore è rivolto a tutti, ma a cominciare da quelli più vicini, i membri della comunità, che Paolo chiama ancora una volta “fratelli”.
È proprio a partire da questa focalizzazione sulla comunità che Paolo si pone il problema del rapporto tra forti e deboli nella fede: membri, cioè, della stessa comunità ma con una diversa convinzione riguardo all’adesione al vangelo (Rm 14,1-15,6). Da uno che rimprovera chi vuole imporre la pratica della legge, ci si aspetterebbe un’esortazione alla coerenza rivolta a chi ha ancora l’abitudine di rispettare i divieti alimentari della legge di Mosè e il rispetto dei tempi sacri. Invece Paolo chiede la coerenza a chi è libero da queste convenzioni superate, non ovviamente con il sistema che hanno abbandonato, ma con l’adesione a Cristo Gesù che non è morto solo per i perfetti. Il criterio per agire, dice Paolo, è l’attenzione per la fragilità nella fede di un fratello “per il quale Cristo è morto” (Rm 14,15). La partecipazione alle sofferenze di Cristo, quindi, riguarda la condivisione del progetto salvifico universale che Gesù è venuto a realizzare, secondo cui non sono le risposte umane a determinare l’appartenenza a Cristo, bensì Dio che vuole la salvezza di tutti. La fraternità cristiana, in quest’ottica, non è data dalla simpatia per l’altro (cosa che è umana, anche nel senso paolino quindi, di ferita dal peccato), ma dall’adesione convinta al progetto di Gesù, dal fare proprie, direbbe Paolo, le sue sofferenze, che porta a vedere nell’altro non un semplice appartenente alla stessa specie umana, ma un fratello per cui Cristo è morto.
La fraternità cristiana o ha un fondamento in Gesù o semplicemente non è, in quanto sarebbe continuamente ridefinita da criteri umani di appartenenza a un partito, a una nazione, a una razza, ma anche a una religione, terreni fertili per ogni guerra. La dialettica stimolante fra deboli e forti di una comunità costituisce per il cristiano la palestra per aiutare l’umanità a superare ogni tipo di divisione, nella consapevolezza grata che Gesù è morto per tutti, veramente tutti e tutti vivono per lui. ☺
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