Lazzaro: il discepolo amato
3 Maggio 2014 Share

Lazzaro: il discepolo amato

La figura più emblematica, ma anche più misteriosa (apparentemente) del Vangelo di Giovanni è il cosiddetto discepolo amato, che sarebbe meglio chiamare “colui che Gesù ama”. La tradizione, sotto l’influsso degli altri tre vangeli (i sinottici) lo ha identificato con Giovanni, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo, attribuendo proprio a questo apostolo sia il vangelo che le lettere e l’Apocalisse. In realtà le cose stanno un po’ diversamente, perché l’ evangelista non ha voluto lasciare il proprio nome o forse lo ha voluto abbandonare. Andiamo per gradi.

L’identificazione con Giovanni è data dal fatto che nei primi tre vangeli è presentato un gruppo più ristretto dei dodici, costituito da Pietro, Giacomo e Giovanni che seguono Gesù in alcuni momenti particolari, più da vicino: quando risuscita una bambina morta, durante la Trasfigurazione e nel Getsemani. Per questo motivo il candidato naturale a diventare discepolo amato è all’interno di quel gruppo. Sapendo che Giacomo è morto nel 44 ad opera di Erode Agrippa (At 12,1-2) e poiché Pietro è nominato più volte nel IV Vangelo, resta Giovanni come candidato più probabile. Ma le cose nel IV Vangelo non stanno proprio in questo modo: in realtà si parla dei due figli di Zebedeo in Gv 21,2 nominati accanto a Pietro, Tommaso, Natanaele e altri due discepoli anonimi. Vista la ritrosia a dare il nome del discepolo amato, è più probabile che egli sia uno dei due discepoli senza nome. Cosa dice invece il vangelo di questo discepolo? Dobbiamo sfatare il mito che egli sia presente dall’inizio del vangelo, dove si parla di Andrea e di un altro discepolo (1,35ss.). In realtà questa figura definita a partire dal particolare affetto di Gesù nei suoi confronti, appare per la prima volta in Gv 13,23, durante l’ultima cena, poi ai piedi della croce, accanto alla madre di Gesù (19,26-27); nella visita alla tomba vuota con Pietro, dove si afferma che il discepolo vede e crede (20,1-10) e infine nell’apparizione sul lago di Tiberiade in Gv 21,1-25, dove si afferma che questo discepolo è all’origine del IV vangelo. Se ci facciamo caso, la presenza del discepolo amato è connessa con i momenti fondamentali della Passione, morte e risurrezione di Gesù e con nient’altro; nel vangelo si parla di altri discepoli anonimi (1,35-40; 18,15-16; 21,2) ma non hanno mai questa definizione che invece è data a un personaggio soltanto, e in alcuni momenti particolari del racconto.

In realtà c’è un altro personaggio definito come “colui che Gesù ama” ed è Lazzaro. All’inizio del capitolo 11, Marta e Maria mandano a dire a Gesù: “Signore, ecco, colui che tu ami è malato” (11,3). È la prima volta in assoluto che nel vangelo ricorre questa definizione e, guarda caso, serve per descrivere un personaggio che muore e che viene risuscitato in modo eclatante da Gesù, dopodiché accoglie Gesù alla sua mensa (12,1-2); i capi del popolo deliberano di uccidere anche lui perché è una prova vivente del potere divino di Gesù (12,9-11). Dopo questi accenni il nome Lazzaro scompare ma resta la definizione che gli è stata data, come attributo del discepolo più importante del vangelo. Gli indizi portano quindi in questa direzione: Lazzaro (di cui non sappiamo molto se non che è fratello di Marta e Maria) è il candidato più probabile per essere identificato con il discepolo che ha ispirato il IV Vangelo.

Perché questo nome non è stato conservato in modo esplicito? In realtà dobbiamo pensare che la comunità dove è stato scritto il vangelo conosceva molto bene il nome di quel discepolo, ma il fine del racconto non è quello di lasciare un nome da onorare, bensì quello di dare un messaggio preciso: chiunque può diventare quel discepolo, a condizione che percorra un itinerario specifico: avere una relazione personale con Gesù, come lui ce l’ha con Dio: durante l’ultima cena si dice che il discepolo è nel seno di Gesù (13,23), così come nel prologo del vangelo si dice che Gesù è nel seno del Padre (1,18); poi deve stare ai piedi della croce, non deve cioè vergognarsi della croce di Gesù, accettarne lo scandalo, come direbbe Paolo, e credere nella sua dimensione salvifica (assiste alla trafittura del costato da cui esce sangue ed acqua); infine è colui che crede di fronte a una tomba vuota, senza dover attendere che Gesù si manifesti nel cenacolo. Ma prima ancora di questo deve essere riportato alla vita da Gesù, deve cioè essere convertito, diventare libero dagli schemi imposti dal suo mondo e incarnare un nuovo modo di essere che lo porta a conformarsi in tutto a Gesù, tanto da essere perseguitato come lui. Il discepolo amato incarna l’affermazione sublime di Paolo: “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me; questa vita che vivo nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal  2,20).

Il fatto che questo discepolo perda il suo nome lo si comprende molto bene a partire da quanto dice Chiara alla fine del film Francesco della Cavani: “Aveva amato a tal punto Gesù che il corpo dell’amante si era trasformato nell’amato”. La domanda che lascia allo spettatore e che l’evangelista rivolge indirettamente al lettore è se anche noi siamo capaci di amare fino a tanto.☺

 

eoc

eoc