La mattanza umana
1 Maggio 2017
La Fonte (351 articles)
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La mattanza umana

La tv trasmette da Aleppo, guerra e dolore. Un sottofondo di immagini tagliate da rumori metallici al quale siamo abituati, come agli spot natalizi tutti amore e calore; questi, anzi, li seguiamo con più attenzione, forse perché ci illudono, quanto meno perché non ci incomodano.
La tv è spettacolo e companatico, non sa raccontare la guerra e nemmeno il cinema lo sa fare. Tanto intendeva probabilmente Emilio Lussu, autore di Un anno sull’Altipiano, una delle opere più importanti della nostra letteratura sulla Grande guerra, il quale, dopo aver visto il film Uomini e no che Francesco Rosi aveva tratto dal suo libro, ebbe a commentare rivolto all’amico e regista: “…tu lo sai, in guerra qualche volta abbiamo anche cantato”.
L’ho riletto di recente Un anno sull’Altipiano e come spesso mi succede l’ho amato più che dopo la prima lettura; penso che i giovani d’oggi, ma anche gli adulti di oggi che dalla prima guerra mondiale sono lontani come da Marte e da Aleppo potrebbero imparare da questo libro più che non dicano della guerra manuali scolastici di sorta, servizi monografici in tv, film.
Un anno sull’Altipiano è un libro singolare, non un romanzo né un diario, non un “libro a tesi” né un libro-denuncia, piuttosto una raccolta accurata di testimonianze della guerra filtrate dalla memoria di chi, come Lussu, la guerra l’ha combattuta in prima linea sul Carso e sull’altipiano di Asiago quale ufficiale della brigata Cagliari. È quanto dichiara lo stesso Lussu quando, a vent’anni da quella esperienza, nel 1937, spiegando di aver accolto l’energico invito dell’amico Gaetano Salvemini a scrivere “il libro”, afferma nella prefazione della prima edizione dello stesso: “…Io non ho raccontato che quello che ho visto e mi ha maggiormente colpito. Non alla fantasia ho fatto appello, ma alla memoria; e i miei compagni d’arme, anche attraverso qualche nome trasformato, riconosceranno facilmente uomini e fatti. Io mi sono spogliato anche della mia esperienza successiva e ho rievocato la guerra così come noi l’abbiamo realmente vissuta, con le idee e i sentimenti di allora. Non si tratta quindi di un lavoro a tesi: esso vuole essere solo una testimonianza italiana della Grande guerra”.
È, però, nell’esperienza umana condivisa in tutta la sua drammaticità, è nella coscienza collettiva che si forma nel “fango” delle trincee, sotto il fuoco incrociato delle artiglierie, è nel confronto con l’ottusità degli ufficiali nutriti di retorica e inadeguati al loro ruolo che sta la forza della narrazione di Lussu, il quale tanto vuole essere autentico, da non indossare idee e sentimenti quali saranno i suoi degli anni successivi, quando egli sarà colpito dal provvedimento di confino a Lipari in quanto anti-fascista. Insomma, Lussu non giudica e non commenta, racconta con sapienza, alternando le sequenze tragiche ad altre schiettamente umoristiche, non abiura alle convinzioni interventiste che nel 1915 gli fecero preferire il conflitto alla neutralità: sono il non-sense della mattanza umana, le suicide azioni d’assalto, le punizioni crudeli dei disertori, i volti dei soldati abbrutiti dall’alcol, lo strazio dei famigliari privati di figli, mariti, padri, fratelli a portare il lettore a costruirselo chiaro il proprio giudizio, su quella guerra e sulla guerra in generale.
Ancora, estremamente persuasivo è lo stile asciutto di Lussu, che con classica semplicità giustappone al quadro crudo di una fucilazione il bozzetto del fanatico generale Leone, ritratto come una macchietta di Chaplin: fango e cognac, ozio e sangue, i colori contrastanti di una umanità all’ultimo stadio, quello della guerra appunto.
Un episodio bellissimo per l’ardore che vi si dispiega nelle forme apparentemente antitetiche del raziocinio e della fratellanza è nel capitolo XIX, laddove Lussu racconta di un nemico austriaco al quale egli potrebbe ben sparare, non essendo da quello visto, ma al quale non riesce a sparare. Così descrive Lussu il susseguirsi velocissimo di pensieri nella sua mente in quel mentre: “…Condurre all’assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: “Ecco sta fermo io ti sparo, io ti uccido” è un’altra. È assolutamente un’altra. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo…”. Porge quindi il fucile al suo caporale; neanch’egli ha il coraggio di sparare e i due rientrano carponi in trincea.
Lussu ha pensato quel che penserà il soldato semplice di De André, Piero, che, di fronte al nemico e pronto a sparargli dice tra sé: “Se gli sparo in fronte o nel cuore soltanto il tempo avrà per morire, ma il tempo a me resterà per vedere, vedere gli occhi di un uomo che muore”.
Piero, poeta e soldato, non spara, ma di fronte non trova il poeta-soldato Lussu.
Tutti sappiamo come andò a finire, come per lo più finisce.
A presto.

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