La nonviolenza cristiana
27 Gennaio 2018
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La nonviolenza cristiana

Verso la fine del primo secolo, quando ormai la prima generazione apostolica, compreso Paolo, non c’era più, si sono cominciati a raccogliere gli scritti di quel periodo, cioè le lettere di Paolo. A chi sentiva attraverso i vangeli che in realtà vicino a Gesù c’era Pietro, forse si chiedeva perché non avesse lasciato nulla di scritto. In base agli scritti di Paolo, inoltre, soprattutto la lettera ai Galati, sembra che Pietro sia addirittura in contrasto con Paolo stesso per cui chi accoglie le idee di quest’ultimo si sente costretto a rifiutare l’altro. È in questo contesto che la figura di Pietro diventa oggetto di maggiore attenzione e anche di una forte riabilitazione soprattutto nelle comunità paoline che sentivano la necessità di un legame spirituale forte con la comunità storica di Gesù, di cui si aveva sufficiente conoscenza attraverso i vangeli che si stavano scrivendo in quel periodo.

Ci sono due tipi di opere che si pongono come fine la riconciliazione tra Pietro e Paolo e di conseguenza tra le comunità generate da loro: il primo tipo consiste negli Atti degli Apostoli, sequel del vangelo di Luca che ha dato grande risalto a Pietro. Il secondo tipo consiste in lettere che richiamano l’attività epistolare di Paolo, anche se con una produzione più contenuta (appena due). In effetti le due lettere di Pietro dialogano con il pensiero di Paolo (la prima) e sono a conoscenza della produzione letteraria di Paolo (la seconda). Leggendole si capisce che non le ha prodotte la stessa mano, anche se la seconda lettera è a conoscenza della prima. È necessario quindi vedere separatamente questi due documenti che sono trattati da “cenerentola” del Nuovo Testamento ma sono dei capolavori da tanti punti di vista.

Vediamo per sommi capi la prima lettera, scritta da un anonimo che si nasconde dietro il nome dell’apostolo ormai scomparso e venerato come martire, e indirizzata a delle comunità che sentono il fiato dei persecutori sul collo. Queste comunità vivono nell’Asia minore (nelle stesse aree evangelizzate da Paolo) verso la fine del primo secolo, dove subiscono oltraggi e persecuzioni soprattutto dal potere opprimente di Roma che pretende il culto imperiale come segno di fedeltà al sistema. Di questa situazione è testimone anche l’Apocalisse, scritta nella stessa epoca, e addirittura un autore pagano, Plinio il giovane, che venti anni dopo allude alla caccia ai cristiani che si faceva in quel periodo. Il tema della lettera è incentrato su come vivere la propria fede in tempi di ostracismo sociale: essa è un autentico manifesto della nonviolenza cristiana, messo nella soffitta dell’ irrilevanza quando il cristianesimo ha avuto dalla sua parte il braccio secolare. Oggi possiamo riscoprirne tutta la bellezza e attualità; anzi, dovrebbe diventare, accanto al discorso della Montagna, una magna charta dell’agire cristiano.

L’autore paragona la situazione di sofferenza dei cristiani a un tempo in cui si è raffinati come l’oro perché preziosi agli occhi di Dio (1,7). I discepoli di Gesù si sentono di passaggio (il termine è paroikòi da cui viene il nome parrocchia) in un mondo che segue altri “valori”, quali il successo, la scalata sociale, l’affermazione dl proprio status. L’autore insegna anche a riconoscere il valore dell’autorità (riecheggiando la lettera ai Romani di Paolo) perché voluta da Dio per mantenere l’ordine sociale, ma non ha prerogative divine, come vorrebbe la retorica del culto imperiale. In una società fondata sull’ apporto economico essenziale degli schiavi, alcuni dei quali hanno colto il fascino del messaggio di Gesù, la lettera invita alla sopportazione, non per convenienza, ma come forma di imitazione del Maestro che ha sofferto lasciandoci il modello da seguire: “Oltraggiato non rispondeva con oltraggi e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia” (2,23). Il vertice dell’ insegnamento nonviolento è rivolto a tutti i cristiani, schiavi o liberi: “Se anche doveste soffrire per la giustizia beati voi. Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore Cristo nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta. È meglio, infatti, se così Dio vuole, soffrire operando il bene piuttosto che facendo il male” (3,14-17).

Nel clima di acredine che spesso caratterizza le reazioni piccate di tanti “cristiani militanti” contro la deriva dei valori della società moderna, il ricordare il contesto in cui il cristianesimo ha avuto origine e lo stile che i cristiani hanno assunto nei confronti di chi li osteggiava, può essere un buon modo per imparare dalla parola di Dio che il mezzo, anche per il cristiano, è il messaggio. Se si annuncia il vangelo con violenza e aggressività, pensando che vince chi ha la voce più forte, si contribuisce a spingere il cristianesimo ancora di più ai margini, non della società, che spesso usa il cristianesimo come ideologia per essere contro qualcuno, ma della sua ragione d’essere. La prima Lettera di Pietro ci ricorda che Gesù non va predicato ma va seguito sulla strada della croce, dove il mondo è salvato non con la forza e l’arroganza, ma con la debolezza e il servizio.☺

 

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