la parola fa eguali
17 Aprile 2010 Share

la parola fa eguali

 

Chi nella scuola non ci sta, non può capire quant’è malata. Può parlarne dagli inaccessibili, incravattati uffici di un ministero – tra una colazione di lavoro e una conferenza stampa, con tanto di aria condizionata e aperitivo a buffet -, fingendo apprensione per un sistema che non funziona e va riformato (peccato che l’ultima volta che sia entrato in un’aula scolastica risalga ai suoi esami di stato), o può discorrerne al bar con la banale, stucchevole invidia per questi professori che godono dei due famigerati mesi di ferie (asteniamoci dal commentare il rovescio della medaglia di questo singolare privilegio a cui molti rinuncerebbero in cambio di qualcos’altro). Ma non può capire quant’è malata. Bisogna insegnarci nella scuola, bisogna passare del tempo a guardare negli occhi un ragazzino che incespica sul congiuntivo in terza media, o bisogna perderne di prezioso a litigare con il collega che fa del suo mestiere un titolo feudale – o una noiosa routine – e a sollecitare lo psicologo di turno che, di fronte al disagio, rimane seduto dietro a una scrivania, per accorgersi che questa vecchia signora è alle prese con una crisi epocale alla quale non è pronta ancora a rispondere in modo adeguato.

Una crisi che si potrebbe e dovrebbe sfidare, invece, a parere di chi scrive, tornando con umiltà alla lezione di un maestro scomodo e dimenticato che ha avuto il coraggio di cantare fuori dal coro, di pagare di persona con coraggio e dignità, per questo, e di fare scelte impopolari che gli sono costate un esilio (da lui trasformato nella sede della più moderna scuola mai esistita in Italia), molti nemici, qualche calunnia e un processo. Aggravando, probabilmente, quelle precarie condizioni di salute che lo hanno portato via a 44 anni, appena il tempo di dare alle stampe quella che dovrebbe essere a pieno titolo considerata la bibbia di ogni insegnante. Quaranta anni fa moriva don Lorenzo Milani, dopo aver affidato la sintesi più completa del suo pensiero a quella rivoluzionaria “Lettera a una professoressa”, realizzata dai ragazzi della sua scuola attraverso un certosino lavoro redazionale corale: un libro/manifesto di denuncia contro la scuola classista e barbaramente selettiva che buttava fuori i figli dei poveri e mandava avanti quelli puliti e sazi dei ricchi, snaturando completamente il volto di quell’istituzione che dovrebbe rimuovere – non perpetuare e sclerotizzare – gli ostacoli di natura socioculturale che impediscono il pieno sviluppo della persona e la sua formazione integrale.

A Barbiana – che all’epoca era quattro case e una chiesa, quel che insomma basta per rappresentare una sana punizione per questo prete che stava dalla parte degli ultimi e non aveva paura di contestare la chiesa, la scuola, i politici, “i potenti” -, a Barbiana dunque, che oggi è la sede legale della Fondazione Don Lorenzo Milani, questo signorino di buona famiglia che lascia ogni comodismo borghese a vent’anni per diventare sacerdote, con la passione e l’urgenza di elevare i poveri e di liberare le loro menti affinché possano esprimersi, riesce a mettere su una scuola che è ciò che ogni scuola dovrebbe essere, che è cioè “la” scuola perché concepisce l’istruzione come unica opportunità di riscatto, per i poveri, dall’ingiustizia sociale, dallo svantaggio socioculturale e quindi vede nella promozione della dignità umana il fine principale dell’educazione: “la parola fa eguali”, diceva don Milani, a indicare che tutto lo sforzo del docente deve essere teso a dare la parola, a dare lingua e voce ai più deboli ed emarginati, a dotare i ragazzi – soprattutto i più svantaggiati, quelli che solo dalla scuola possono averli – di quegli strumenti linguistici e culturali indispensabili a muoversi nella realtà in modo libero e consapevole, per scongiurare il pericolo che l’ignoranza diventi facile preda dei soprusi dei “ricchi”.

Un altro mondo, un’altra Italia, dice qualcuno: di sicuro, ma la malattia della scuola di quell’Italia non è tanto diversa da quella di adesso, visto che siamo ancora paurosamente in ritardo sul fronte dell’apprendimento del linguaggio e su quello dell’aggancio dei contenuti dell’istruzione con la concretezza della realtà. Quel don Lorenzo che con i suoi ragazzi – figli del contadino, dell’operaio, del pastore – legge i quotidiani dei più opposti partiti “per imparare a non fidarsi di nessuno e tanto meno di quello cattolico”, quel don Lorenzo che con loro commenta i dati dell’Istat, spedisce e legge lettere, scrive articoli di giornale, consuma il dizionario a furia di etimologie, studia e spiega il meccanismo parlamentare, discute della questione della Fiat e di quella algerina, quel don Lorenzo ha ancora molto da insegnare ai nostri troppi programmini noiosi e impolverati, a tanti “prodotti finali” che costano un occhio e chiudono trionfalmente progetti didattici realizzati col solo contributo dei “più bravi della classe”.

Don Milani non era un buonista, non pensava che la scuola dovesse allargare le braccia e accogliere tutti con una pacca sulla spalla senza chiedere granché, ma facendo una sorta di elemosina della cultura: qualcuno lo ha frainteso, mortificando il cuore del suo pensiero pedagogico. I suoi allievi – uno per tutti, il “Francuccio” di tante lettere, oggi si occupa di economia alternativa e dirige il Centro Nuovo Modello di Sviluppo a Vecchiano, vicino Pisa – lo ricordano così, come un maestro appassionato, affettuosissimo, coccolone, ma inflessibile, severo, esigente fino ad attirarsi l’incomprensione e lo sbigottimento dei tanti visitatori di Barbiana, mai però quella dei ragazzi stessi, per i quali era assolutamente normale studiare 12 ore al giorno per 365 giorni all’anno: “La ricreazione è finita” è uno dei suoi scritti più dirompenti, un attacco feroce – il cui messaggio va contestualizzato ma non anacquato – alla mollezza di certi stili educativi (soprattutto parrocchiali), e uno sfogo sulla necessità di dare ai ragazzi il senso di una disciplina ferrea, di un senso del dovere solido, capace di formarli al valore dell’impegno, e al senso di profonda dignità della scuola.

Peccato non poter leggere, oggi, una sua “Lettera ad un padre”, ad uno dei tanti padri “assenti” dalla vita dei figli, e oggetto delle analisi allarmate di sociologi, psicologi e quant’altri si occupano dell’attuale crisi dell’autorevolezza, dello smarrimento di punti cardinali, del raro uso del “no” da parte di genitori, educatori, figure di riferimento.

La sana severità di don Lorenzo avrebbe tanto da dire anche a loro, come ne ha oggi – a quarant’anni di distanza – a quell’insegnante che entra ogni giorno in aula conoscendo perfettamente tutti gli acciacchi della vecchia signora che ha scelto di servire ma desiderando spendersi per guarirla, per migliorare se stesso e promuovere la dignità di chi è seduto nei banchi; a quell’insegnante che svolge in silenzio questo rischioso e straordinario mestiere da funambolo, fatto di strategie didattiche e intuito, di obiettivi cognitivi ed emozioni, di divieti e carezze. E soprattutto di amore. ☺

gadelis@libero.it

 

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