Colleziono volti di donne, volti eterni, immobili. Donne ignoranti e colte, intelligenti nell’anima, donne messe incinte e abbandonate, donne prese a sassate dalla vita. Occhi inquieti, mani che si contorcono, e poi la solitudine, quella concreta, quella di chi non esiste per nessuno, che porta alla disperazione, senza nessuno con cui scambiare una parola vera, a cui chiedere un consiglio. La solitudine di chi cammina per le strade e non viene notata, di chi ha talmente tanti problemi e ansie che non riesce ad uscire dal proprio guscio. Solitudine nella maternità, solitudine sociale, che porta all’ignoranza delle leggi e degli aiuti previsti, solitudine umana perché lontane dal loro paese d’origine, dalle loro madri, dal loro mondo. Così la mancanza di contatti umani fa sì che queste donne vivano come sospese, ignorate emotivamente nelle case dove lavorano, spinte ad innalzare barriere tra loro nelle strutture che le ospitano, diverse magari per fede religiosa e scelte di vita, considerate con diffidenza perché non parlano bene l’italiano, le straniere rimangono straniere, cioè altre. Impossibilitate ad integrarsi davvero. A parlare sul serio dei loro malesseri, veri o immaginari. Ad avere qualcuno su cui appoggiarsi o con cui scambiare consigli ed opinioni. Ad esistere.
“Qualche volta fa bene parlare”. Forse l’essenza di Paulina è tutta qui, in questa frase che la racconta. La sua è la storia di una giovane donna, coraggiosa, toccata dalla vita, aggravata dal fatto di essere straniera a Roma, con una figlia piccola e una malattia poco conosciuta che le toglie le forze e la voglia di combattere. Lei che di forza interiore ne ha da vendere, anche se non ha nessuno con cui parlare. “A volte ho voglia di piangere – dice – non ho la forza nemmeno per cambiarle il pannolino”. “Miastenia gravis” così si chiama il suo male. Toglie la forza la miastenia, come una specie di rinuncia volontaria alla vita, una via di fuga dalle ansie e dagli impegni, uno stop fisico all’esistenza. Se Paulina fosse una donna italiana, se avesse più soldi e consapevolezze, forse, meriterebbe una seria analisi, un cammino psicoanalitico serio, ma è una giovane donna straniera che vive in Italia, non ha gli strumenti culturali ed economici per capire che il suo male è anche interiore. Che dal baratro si può anche risalire. “Nessun medico – dice con un impeto di rancore – mi ha sconsigliato, mi ha detto di non avere un figlio. Nessuno mi ha spiegato come sarebbe stato questo male. Io non sono italiana”. La gravidanza è la vera lotta di Paulina: ogni tanto cade per strada, non riesce ad essere padrona del suo corpo, non ha le forze né fisiche né morali.
Viene da Lima, Paulina, una metropoli enorme dove la gente dorme ancora nelle baracche di fango. Roma era il miraggio di una vita diversa. “Avevo un’amica che lavorava nella capitale, mi diceva vieni. L’ho seguita, mi ha trovato un lavoro. Ma era orribile, ho imparato subito che bisogna essere forti”. Orribile, Paulina, lo spiega bene: è il senso di umiliazione e di casta che ancora serpeggia in alcune case romane nel terzo millennio. “Un immigrante non viene qui solo per lavorare e chiedere. Anche se le persone accettano qualsiasi cosa, qualsiasi tipo di occupazione, hanno una loro educazione e una loro preparazione professionale. Invece siamo sempre trattati come ignoranti. Siamo estranei, siamo quelli che scocciano, che danno fastidio. Noi vorremmo invece essere aiutati a far parte di questo Paese, di questa cultura”. Anche al nido Paulina si sente a disagio. “Quando sei straniera – e lo ripete – ti guardano in modo sospettoso, ti trattano diversamente, magari pensano che sei ignorante”. Invece lei non lo è, ha un animo sensibile ed ama leggere. Se avesse tempo e modo, spiega, lo farebbe sempre. La poesia, ad esempio. È innamorata di Pablo Neruda. “Lo leggevo in spagnolo”. Ha studiato Paulina. Ha finito solo per amore di sua madre le scuole superiori, perché anche in patria è successo qualcosa e quando lo ricorda piange. Un piccolo singhiozzo che caccia via, repentino. “È successo. Non ci penso mai. Un vicino di casa si è approfittato di me. Avevo quindici anni. Sono rimasta incinta. Da noi l’aborto non è permesso. Mia madre voleva dare il bambino in adozione, io non ho voluto. I bambini non hanno colpa di quello che succede. Ho continuato a studiare dopo la sua nascita, poi ho dovuto lasciare per lavorare”. “Lo ha cresciuto mia madre, sono sei anni che non riesco a vederlo. Vorrei andare a trovarlo e non vorrei, non mi vanno gli sguardi della gente, non mi va che tutti si accorgano che non ho le forze fisiche, che non riesco a camminare, a muovermi”.
Se ne va, piccolina e minuta. Con i suoi grandi dolori, con la sua malattia, con quel senso di estraneità dalla vita. “Mi ha fatto bene parlare con te”.
Se ogni giorno parlassimo con qualcuno che non conosciamo anche solo per cinque minuti, ascoltandolo davvero, forse saremmo tutti migliori. Quanto meno più consapevoli. ☺
morenavaccaro2@virgilio.it
Colleziono volti di donne, volti eterni, immobili. Donne ignoranti e colte, intelligenti nell’anima, donne messe incinte e abbandonate, donne prese a sassate dalla vita. Occhi inquieti, mani che si contorcono, e poi la solitudine, quella concreta, quella di chi non esiste per nessuno, che porta alla disperazione, senza nessuno con cui scambiare una parola vera, a cui chiedere un consiglio. La solitudine di chi cammina per le strade e non viene notata, di chi ha talmente tanti problemi e ansie che non riesce ad uscire dal proprio guscio. Solitudine nella maternità, solitudine sociale, che porta all’ignoranza delle leggi e degli aiuti previsti, solitudine umana perché lontane dal loro paese d’origine, dalle loro madri, dal loro mondo. Così la mancanza di contatti umani fa sì che queste donne vivano come sospese, ignorate emotivamente nelle case dove lavorano, spinte ad innalzare barriere tra loro nelle strutture che le ospitano, diverse magari per fede religiosa e scelte di vita, considerate con diffidenza perché non parlano bene l’italiano, le straniere rimangono straniere, cioè altre. Impossibilitate ad integrarsi davvero. A parlare sul serio dei loro malesseri, veri o immaginari. Ad avere qualcuno su cui appoggiarsi o con cui scambiare consigli ed opinioni. Ad esistere.
“Qualche volta fa bene parlare”. Forse l’essenza di Paulina è tutta qui, in questa frase che la racconta. La sua è la storia di una giovane donna, coraggiosa, toccata dalla vita, aggravata dal fatto di essere straniera a Roma, con una figlia piccola e una malattia poco conosciuta che le toglie le forze e la voglia di combattere. Lei che di forza interiore ne ha da vendere, anche se non ha nessuno con cui parlare. “A volte ho voglia di piangere – dice – non ho la forza nemmeno per cambiarle il pannolino”. “Miastenia gravis” così si chiama il suo male. Toglie la forza la miastenia, come una specie di rinuncia volontaria alla vita, una via di fuga dalle ansie e dagli impegni, uno stop fisico all’esistenza. Se Paulina fosse una donna italiana, se avesse più soldi e consapevolezze, forse, meriterebbe una seria analisi, un cammino psicoanalitico serio, ma è una giovane donna straniera che vive in Italia, non ha gli strumenti culturali ed economici per capire che il suo male è anche interiore. Che dal baratro si può anche risalire. “Nessun medico – dice con un impeto di rancore – mi ha sconsigliato, mi ha detto di non avere un figlio. Nessuno mi ha spiegato come sarebbe stato questo male. Io non sono italiana”. La gravidanza è la vera lotta di Paulina: ogni tanto cade per strada, non riesce ad essere padrona del suo corpo, non ha le forze né fisiche né morali.
Viene da Lima, Paulina, una metropoli enorme dove la gente dorme ancora nelle baracche di fango. Roma era il miraggio di una vita diversa. “Avevo un’amica che lavorava nella capitale, mi diceva vieni. L’ho seguita, mi ha trovato un lavoro. Ma era orribile, ho imparato subito che bisogna essere forti”. Orribile, Paulina, lo spiega bene: è il senso di umiliazione e di casta che ancora serpeggia in alcune case romane nel terzo millennio. “Un immigrante non viene qui solo per lavorare e chiedere. Anche se le persone accettano qualsiasi cosa, qualsiasi tipo di occupazione, hanno una loro educazione e una loro preparazione professionale. Invece siamo sempre trattati come ignoranti. Siamo estranei, siamo quelli che scocciano, che danno fastidio. Noi vorremmo invece essere aiutati a far parte di questo Paese, di questa cultura”. Anche al nido Paulina si sente a disagio. “Quando sei straniera – e lo ripete – ti guardano in modo sospettoso, ti trattano diversamente, magari pensano che sei ignorante”. Invece lei non lo è, ha un animo sensibile ed ama leggere. Se avesse tempo e modo, spiega, lo farebbe sempre. La poesia, ad esempio. È innamorata di Pablo Neruda. “Lo leggevo in spagnolo”. Ha studiato Paulina. Ha finito solo per amore di sua madre le scuole superiori, perché anche in patria è successo qualcosa e quando lo ricorda piange. Un piccolo singhiozzo che caccia via, repentino. “È successo. Non ci penso mai. Un vicino di casa si è approfittato di me. Avevo quindici anni. Sono rimasta incinta. Da noi l’aborto non è permesso. Mia madre voleva dare il bambino in adozione, io non ho voluto. I bambini non hanno colpa di quello che succede. Ho continuato a studiare dopo la sua nascita, poi ho dovuto lasciare per lavorare”. “Lo ha cresciuto mia madre, sono sei anni che non riesco a vederlo. Vorrei andare a trovarlo e non vorrei, non mi vanno gli sguardi della gente, non mi va che tutti si accorgano che non ho le forze fisiche, che non riesco a camminare, a muovermi”.
Se ne va, piccolina e minuta. Con i suoi grandi dolori, con la sua malattia, con quel senso di estraneità dalla vita. “Mi ha fatto bene parlare con te”.
Se ogni giorno parlassimo con qualcuno che non conosciamo anche solo per cinque minuti, ascoltandolo davvero, forse saremmo tutti migliori. Quanto meno più consapevoli. ☺
Colleziono volti di donne, volti eterni, immobili. Donne ignoranti e colte, intelligenti nell’anima, donne messe incinte e abbandonate, donne prese a sassate dalla vita. Occhi inquieti, mani che si contorcono, e poi la solitudine, quella concreta, quella di chi non esiste per nessuno, che porta alla disperazione, senza nessuno con cui scambiare una parola vera, a cui chiedere un consiglio. La solitudine di chi cammina per le strade e non viene notata, di chi ha talmente tanti problemi e ansie che non riesce ad uscire dal proprio guscio. Solitudine nella maternità, solitudine sociale, che porta all’ignoranza delle leggi e degli aiuti previsti, solitudine umana perché lontane dal loro paese d’origine, dalle loro madri, dal loro mondo. Così la mancanza di contatti umani fa sì che queste donne vivano come sospese, ignorate emotivamente nelle case dove lavorano, spinte ad innalzare barriere tra loro nelle strutture che le ospitano, diverse magari per fede religiosa e scelte di vita, considerate con diffidenza perché non parlano bene l’italiano, le straniere rimangono straniere, cioè altre. Impossibilitate ad integrarsi davvero. A parlare sul serio dei loro malesseri, veri o immaginari. Ad avere qualcuno su cui appoggiarsi o con cui scambiare consigli ed opinioni. Ad esistere.
“Qualche volta fa bene parlare”. Forse l’essenza di Paulina è tutta qui, in questa frase che la racconta. La sua è la storia di una giovane donna, coraggiosa, toccata dalla vita, aggravata dal fatto di essere straniera a Roma, con una figlia piccola e una malattia poco conosciuta che le toglie le forze e la voglia di combattere. Lei che di forza interiore ne ha da vendere, anche se non ha nessuno con cui parlare. “A volte ho voglia di piangere – dice – non ho la forza nemmeno per cambiarle il pannolino”. “Miastenia gravis” così si chiama il suo male. Toglie la forza la miastenia, come una specie di rinuncia volontaria alla vita, una via di fuga dalle ansie e dagli impegni, uno stop fisico all’esistenza. Se Paulina fosse una donna italiana, se avesse più soldi e consapevolezze, forse, meriterebbe una seria analisi, un cammino psicoanalitico serio, ma è una giovane donna straniera che vive in Italia, non ha gli strumenti culturali ed economici per capire che il suo male è anche interiore. Che dal baratro si può anche risalire. “Nessun medico – dice con un impeto di rancore – mi ha sconsigliato, mi ha detto di non avere un figlio. Nessuno mi ha spiegato come sarebbe stato questo male. Io non sono italiana”. La gravidanza è la vera lotta di Paulina: ogni tanto cade per strada, non riesce ad essere padrona del suo corpo, non ha le forze né fisiche né morali.
Viene da Lima, Paulina, una metropoli enorme dove la gente dorme ancora nelle baracche di fango. Roma era il miraggio di una vita diversa. “Avevo un’amica che lavorava nella capitale, mi diceva vieni. L’ho seguita, mi ha trovato un lavoro. Ma era orribile, ho imparato subito che bisogna essere forti”. Orribile, Paulina, lo spiega bene: è il senso di umiliazione e di casta che ancora serpeggia in alcune case romane nel terzo millennio. “Un immigrante non viene qui solo per lavorare e chiedere. Anche se le persone accettano qualsiasi cosa, qualsiasi tipo di occupazione, hanno una loro educazione e una loro preparazione professionale. Invece siamo sempre trattati come ignoranti. Siamo estranei, siamo quelli che scocciano, che danno fastidio. Noi vorremmo invece essere aiutati a far parte di questo Paese, di questa cultura”. Anche al nido Paulina si sente a disagio. “Quando sei straniera – e lo ripete – ti guardano in modo sospettoso, ti trattano diversamente, magari pensano che sei ignorante”. Invece lei non lo è, ha un animo sensibile ed ama leggere. Se avesse tempo e modo, spiega, lo farebbe sempre. La poesia, ad esempio. È innamorata di Pablo Neruda. “Lo leggevo in spagnolo”. Ha studiato Paulina. Ha finito solo per amore di sua madre le scuole superiori, perché anche in patria è successo qualcosa e quando lo ricorda piange. Un piccolo singhiozzo che caccia via, repentino. “È successo. Non ci penso mai. Un vicino di casa si è approfittato di me. Avevo quindici anni. Sono rimasta incinta. Da noi l’aborto non è permesso. Mia madre voleva dare il bambino in adozione, io non ho voluto. I bambini non hanno colpa di quello che succede. Ho continuato a studiare dopo la sua nascita, poi ho dovuto lasciare per lavorare”. “Lo ha cresciuto mia madre, sono sei anni che non riesco a vederlo. Vorrei andare a trovarlo e non vorrei, non mi vanno gli sguardi della gente, non mi va che tutti si accorgano che non ho le forze fisiche, che non riesco a camminare, a muovermi”.
Se ne va, piccolina e minuta. Con i suoi grandi dolori, con la sua malattia, con quel senso di estraneità dalla vita. “Mi ha fatto bene parlare con te”.
Se ogni giorno parlassimo con qualcuno che non conosciamo anche solo per cinque minuti, ascoltandolo davvero, forse saremmo tutti migliori. Quanto meno più consapevoli. ☺
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