La terra di benedetto
8 Ottobre 2019
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La terra di benedetto

Norcia, aprile 2017. Dopo due ore di cammino lungo i sentieri dell’Appenino, lo scrittore e viaggiatore triestino Paolo Rumiz giunge al paesino umbro devastato dal terremoto del 30 ottobre 2016. “Fuori dalle mura, un’umanità superstite […]. Dentro le mura, il vuoto quasi totale. Un quadro di De Chirico. […] Si percepiva un pericolo onnipresente, ma anche l’esempio tutto italiano di una macchina burocratica capace di ‘uccidere’ più del terremoto ostacolando i ritorni con regole e divieti”. Ma è sullo sfondo di questo paese fantasma, con le rovine della Cattedrale, che vede una statua, intatta, al centro della piazza. La barba lunga e il braccio destro sollevato verso il cielo. Sotto, la scritta “San Benedetto, patrono d’ Europa”. Di qui l’idea di partire per un altro viaggio, alla ricerca dell’Europa attraverso le abbazie del suo protettore, da Praglia, in Veneto, a Sankt Ottilien, in Bavaria; da Muri Gries e Marienberg, nel Sud Tirolo, a San Gallo, in Svizzera; da Cîteaux e Saint-Wandrille, in Francia, a Orval, in Belgio, fino a Pannonhalma, in Ungheria. E dall’immagine dell’anziana monaca, che nell’abbazia femminile di Viboldone, in Lombardia, fila la lana dietro una porta, l’altra idea di raccoglierne le memorie in un saggio dal titolo Il filo infinito (Milano, Feltrinelli, 2019). Il filo di lana come simbolo della rete benedettina di monasteri, che, a partire dal VI sec. d.C., ricoprì l’intera Europa, riuscendo a salvarla da più ondate di invasioni barbariche. Senza armi, ma solo grazie alla celebre Regola e all’ancor più celebre formula ora et labora. Con le loro foresterie, scuderie, cucine e infermerie, ma anche con le aziende agricole e i magazzini, con gli scriptoria e le biblioteche, le abbazie benedettine furono “formidabili bastioni di resistenza alla dissoluzione” che seguì alla fine dell’Impero romano.

Non sorprende che il pellegrinaggio di Rumiz finisca per coincidere “con la riscoperta dei valori liquidati o derisi dalla modernità”. Fra questi, in primo luogo, quell’Europa che sembra oggi ignorare di essere la terra di Benedetto e del suo principio dell’accoglienza. “In questo viaggio, tu non sai quanto, Europa mia, ho sentito invocare inutilmente il tuo nome. Tu hai abbandonato Sarajevo assediata. I tuoi soldati hanno permesso il massacro di Srebenica senza fare una piega. Ti ho visto patteggiare con i dittatori di mezzo mondo, lasciar soli i rivoltosi ucraini, gli intellettuali turchi oppressi da Erdogan […]. Ora ti vedo lasciar morire i migranti in mare e fare del Mediterraneo la più grande fossa comune del Pianeta”. Parallelamente, fin dall’inizio del viaggio, Rumiz raccoglie in un taccuino una sorta di “abbecedario antirazzista”, per trovare le parole giuste con cui rispondere alla “Bestia” del razzismo, senza mettersi sullo stesso piano dell’avversario, e per combattere contro il peggiore dei silenzi, quello della vigliaccheria. Di questo “vocabolario fulminante”, fa parte ad esempio il dissenso mascherato sotto forma di preghiera: “Prego perché tuo figlio non debba mai finire dietro un reticolato e tu non debba mai essere guardato come un miserabile […]. Invoco il Signore perché i tuoi nipotini non debbano passare inverni nel fango, sotto una tenda […] Prego perché tu non debba mai udire, rivolte a te, parole come quelle che hai appena pronunciato”.

Così, mentre si scaricano sugli ultimi le colpe della crisi, e volgarità e violenza dilagano sul web, Rumiz ci ricorda come il modello di Benedetto ponga delle domande alla nostra società “ipertecnologi- ca e di una povertà spirituale allarmante”. E come, “a chi è assordato dal frastuono e dal superfluo”, offra almeno “una zattera di frugalità e silenzio, che di questi tempi è già un dono inestimabile”… ☺

 

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