Era stato annunciato da mesi il richiamo “commemorativo” della stagione dei movimenti giovanili che in quell’anno fatidico mise in subbuglio una buona parte di mondo. Ma si preannunciavano anche due fronti contrapposti nella interpretazione di quegli eventi che ebbero peso nel tempo e che ancora oggi ci interrogano su questioni nodali della politica.
Su un fronte si collocano coloro che hanno etichettato come sovversiva, e quindi in negativo, l’intera sequenza di quei fatti; sull’altro fronte si è posta la schiera di quanti hanno riconosciuto il movimento giovanile del tempo come modello di riferimento per una diversa visione della storia in termini di liberazione da dispotismi di ogni genere. E le versioni che si vanno profilando sulla stampa e nella memoria di esperti e militanti del tempo confermano quanto annunciato.
Non è questo lo spazio per riproporre un faccia a faccia delle due versioni su quel “caldo” periodo della storia del secolo passato ma forse, a tempo trascorso, possiamo giovarci del pensiero di un autorevole pensatore che ebbe l’intuito di affermare che il senso della storia lo si coglie solo al momento in cui essa volge nella fase conclusiva. Quasi a confermare l’antico adagio: la morale della favola si delinea a fatto compiuto.
Si può partire da una espressione di uno studioso che al maggio francese dedicò interesse anche per avervi preso parte e assegnò a quella stagione una prospettiva di annuncio profetico. Si tratta di Alain Tourenne che ebbe a scrivere quasi in apertura della sua cronaca sul movimento giovanile d’oltralpe: Ce n’est q’un début… non è che un inizio. A suo modo il docente all’università di Nanterre, che rappresentò uno dei centri del fermento giovanile francese, dava risalto a quel motto che rappresentò diffusamente il progetto dei giovani del ’68: l’immaginazione al potere.
Per chi lo ha vissuto, il sessantotto in qualche modo ha avuto il peso di una svolta storica destinata a segnare le coscienze e la volontà di “esserci”, in contrapposizione ad un potere che invece, per sua natura, si prodiga nel diffondere cultura di assenteismo e di adeguamento allo status quo. C’è più di un testimone e militante del tempo che conferma la tesi, diffusa tra molti protagonisti di quella stagione, che il ’68 anticipò il senso e il valore che oggi si cerca a fatica di rivendicare per la cosiddetta “società civile”.
E questo avvenne proprio nei confronti degli imperi e della politica che imperversavano su fronti anche contrapposti. Ed ecco allora l’adesione passionale di quei giovani agli ideali di Martin Luther King, alle istanze di liberazione dell’oppressione dei popoli da ogni forma di schiavitù, alla ferma volontà di emancipazione della classe operaia dalle catene di montaggio di un lavoro alienante e non equamente remunerato, come pure alla cultura della nonviolenza che veniva alimentata da testimoni di provenienza culturale e religiosa diversa. E furono giovani gli studenti di Berkley (USA) che testimoniarono con veemenza e coraggio contro la disumana guerra del Vietnam; così come fu un giovane, Jan Palak che, con il sacrificio della sua vita a Piazza S. Venceslao (Praga), divenne il simbolo della resistenza all’invasione delle nazioni dell’Europa dell’est da parte delle milizie sovietiche.
Come non riconoscere questi meriti a quei movimenti di massa che nei giovani, ma non solo, trovarono testimoni del tutto coerenti? E non erano certo tempi di… quieto vivere. Furono giovani disturbatori non solo di forze che rappresentavano la politica del passato ma anche di partiti che in qualche modo si andavano affermando come soggetti votati al cambiamento e comunque provenienti da istanze di liberazione sollevate dalla storia e dalla cultura del marxismo che si andava affermando in Europa e nel mondo. Ma, e qui siamo al punto nodale, quella generazione giovanile in movimento colse alcune gravi contraddizioni che segnavano anche il partito principe della sinistra.
Scrive Gad Lerner in un suo recente intervento apparso su Micromega: “Il sessantotto dà ancora tanto fastidio…” come lo diede allora. Le ragioni che egli adduce derivano dalla posizione rigida degli organi di partito che si sentivano e si sentono disturbati dalle nuove generazioni. “Ma come si permettono questi giovinastri di venire a darci delle lezioni di coerenza e di rivoluzione?”.
Ed è certamente in questa stagione che si pone, in maniera vibrante, la questione di dare senso nuovo alla politica e quindi di ridisegnare il ruolo dei partiti perché siano strumenti di democrazia partecipata e non la “casta degli intoccabili”, che in questi tempi tanto ci allarma, che fornisce diffusi messaggi di voler mettere fuori campo la società civile.
Ho avuto modo di vivere di persona quella stagione di impegno sul versante del volontariato e della solidarietà sociale con giovani di provenienza geografica, sociale, politica e culturale diversa. Fu la stagione che vide “un altro sessantotto” tradursi nei campi di lavoro e nella creazione di gruppi impegnati nel sociale e allertati sulle sfide e le contraddizioni che la politica testimoniava in quei giorni. In Molise fu la stagione del movimento “Nuova Frontiera” che contaminò molte altre regioni italiane. Avemmo modo di sperimentare la diffidenza della politica nei confronti del nostro lavoro e soprattutto della nostra presa di coscienza critica su questioni che sollevavano allora, come oggi, il risentimento del popolo desto. Era difficile allora interloquire con la politica. Come lo è oggi. In questa fatica e resistenza consiste uno dei punti più significativi nel movimentismo giovanile del sessantotto. Ed è di forte attualità per la società e la politica di oggi, marcate dalla vena perenne di litigiosità e carente di senso del bene comune, il modello dialogico che si sviluppò all’interno di molti di quei gruppi tra persone di diversa provenienza. E non solo politica. Insomma furono loro, quei giovani, a creare il clima e le regole giuste per dibattere e per lavorare per obiettivi comuni. In qualche modo sono stati gli anticipatori di quel che oggi chiamiamo terzo settore. Allora fu molto più arduo veder riconosciuto il diritto di parola e di interlocuzione con la politica e le istituzioni. Gli episodi che ne danno testimonianza sono molti e ben documentati. Ma su questo aspetto forse è il caso di proseguire nella ricostruzione, anche per cogliere l’attualità che la cosa riveste in una stagione elettorale in cui è ben palese l’emergenza di un recupero di relazione tra politica e cittadini. Quella generazione la rivendicò.
Peccato che la storia di quella stagione, come fa molta cronaca necrofila di oggi, venne racchiusa e falsata nella predominante e quasi esclusiva messa in scena delle stragi di piazza. Il sessantotto più vero è quello che si è reso testimone di una volontà di riaccostamento della politica all’uomo.☺
le.leone@tiscali.it
Era stato annunciato da mesi il richiamo “commemorativo” della stagione dei movimenti giovanili che in quell’anno fatidico mise in subbuglio una buona parte di mondo. Ma si preannunciavano anche due fronti contrapposti nella interpretazione di quegli eventi che ebbero peso nel tempo e che ancora oggi ci interrogano su questioni nodali della politica.
Su un fronte si collocano coloro che hanno etichettato come sovversiva, e quindi in negativo, l’intera sequenza di quei fatti; sull’altro fronte si è posta la schiera di quanti hanno riconosciuto il movimento giovanile del tempo come modello di riferimento per una diversa visione della storia in termini di liberazione da dispotismi di ogni genere. E le versioni che si vanno profilando sulla stampa e nella memoria di esperti e militanti del tempo confermano quanto annunciato.
Non è questo lo spazio per riproporre un faccia a faccia delle due versioni su quel “caldo” periodo della storia del secolo passato ma forse, a tempo trascorso, possiamo giovarci del pensiero di un autorevole pensatore che ebbe l’intuito di affermare che il senso della storia lo si coglie solo al momento in cui essa volge nella fase conclusiva. Quasi a confermare l’antico adagio: la morale della favola si delinea a fatto compiuto.
Si può partire da una espressione di uno studioso che al maggio francese dedicò interesse anche per avervi preso parte e assegnò a quella stagione una prospettiva di annuncio profetico. Si tratta di Alain Tourenne che ebbe a scrivere quasi in apertura della sua cronaca sul movimento giovanile d’oltralpe: Ce n’est q’un début… non è che un inizio. A suo modo il docente all’università di Nanterre, che rappresentò uno dei centri del fermento giovanile francese, dava risalto a quel motto che rappresentò diffusamente il progetto dei giovani del ’68: l’immaginazione al potere.
Per chi lo ha vissuto, il sessantotto in qualche modo ha avuto il peso di una svolta storica destinata a segnare le coscienze e la volontà di “esserci”, in contrapposizione ad un potere che invece, per sua natura, si prodiga nel diffondere cultura di assenteismo e di adeguamento allo status quo. C’è più di un testimone e militante del tempo che conferma la tesi, diffusa tra molti protagonisti di quella stagione, che il ’68 anticipò il senso e il valore che oggi si cerca a fatica di rivendicare per la cosiddetta “società civile”.
E questo avvenne proprio nei confronti degli imperi e della politica che imperversavano su fronti anche contrapposti. Ed ecco allora l’adesione passionale di quei giovani agli ideali di Martin Luther King, alle istanze di liberazione dell’oppressione dei popoli da ogni forma di schiavitù, alla ferma volontà di emancipazione della classe operaia dalle catene di montaggio di un lavoro alienante e non equamente remunerato, come pure alla cultura della nonviolenza che veniva alimentata da testimoni di provenienza culturale e religiosa diversa. E furono giovani gli studenti di Berkley (USA) che testimoniarono con veemenza e coraggio contro la disumana guerra del Vietnam; così come fu un giovane, Jan Palak che, con il sacrificio della sua vita a Piazza S. Venceslao (Praga), divenne il simbolo della resistenza all’invasione delle nazioni dell’Europa dell’est da parte delle milizie sovietiche.
Come non riconoscere questi meriti a quei movimenti di massa che nei giovani, ma non solo, trovarono testimoni del tutto coerenti? E non erano certo tempi di… quieto vivere. Furono giovani disturbatori non solo di forze che rappresentavano la politica del passato ma anche di partiti che in qualche modo si andavano affermando come soggetti votati al cambiamento e comunque provenienti da istanze di liberazione sollevate dalla storia e dalla cultura del marxismo che si andava affermando in Europa e nel mondo. Ma, e qui siamo al punto nodale, quella generazione giovanile in movimento colse alcune gravi contraddizioni che segnavano anche il partito principe della sinistra.
Scrive Gad Lerner in un suo recente intervento apparso su Micromega: “Il sessantotto dà ancora tanto fastidio…” come lo diede allora. Le ragioni che egli adduce derivano dalla posizione rigida degli organi di partito che si sentivano e si sentono disturbati dalle nuove generazioni. “Ma come si permettono questi giovinastri di venire a darci delle lezioni di coerenza e di rivoluzione?”.
Ed è certamente in questa stagione che si pone, in maniera vibrante, la questione di dare senso nuovo alla politica e quindi di ridisegnare il ruolo dei partiti perché siano strumenti di democrazia partecipata e non la “casta degli intoccabili”, che in questi tempi tanto ci allarma, che fornisce diffusi messaggi di voler mettere fuori campo la società civile.
Ho avuto modo di vivere di persona quella stagione di impegno sul versante del volontariato e della solidarietà sociale con giovani di provenienza geografica, sociale, politica e culturale diversa. Fu la stagione che vide “un altro sessantotto” tradursi nei campi di lavoro e nella creazione di gruppi impegnati nel sociale e allertati sulle sfide e le contraddizioni che la politica testimoniava in quei giorni. In Molise fu la stagione del movimento “Nuova Frontiera” che contaminò molte altre regioni italiane. Avemmo modo di sperimentare la diffidenza della politica nei confronti del nostro lavoro e soprattutto della nostra presa di coscienza critica su questioni che sollevavano allora, come oggi, il risentimento del popolo desto. Era difficile allora interloquire con la politica. Come lo è oggi. In questa fatica e resistenza consiste uno dei punti più significativi nel movimentismo giovanile del sessantotto. Ed è di forte attualità per la società e la politica di oggi, marcate dalla vena perenne di litigiosità e carente di senso del bene comune, il modello dialogico che si sviluppò all’interno di molti di quei gruppi tra persone di diversa provenienza. E non solo politica. Insomma furono loro, quei giovani, a creare il clima e le regole giuste per dibattere e per lavorare per obiettivi comuni. In qualche modo sono stati gli anticipatori di quel che oggi chiamiamo terzo settore. Allora fu molto più arduo veder riconosciuto il diritto di parola e di interlocuzione con la politica e le istituzioni. Gli episodi che ne danno testimonianza sono molti e ben documentati. Ma su questo aspetto forse è il caso di proseguire nella ricostruzione, anche per cogliere l’attualità che la cosa riveste in una stagione elettorale in cui è ben palese l’emergenza di un recupero di relazione tra politica e cittadini. Quella generazione la rivendicò.
Peccato che la storia di quella stagione, come fa molta cronaca necrofila di oggi, venne racchiusa e falsata nella predominante e quasi esclusiva messa in scena delle stragi di piazza. Il sessantotto più vero è quello che si è reso testimone di una volontà di riaccostamento della politica all’uomo.☺
Era stato annunciato da mesi il richiamo “commemorativo” della stagione dei movimenti giovanili che in quell’anno fatidico mise in subbuglio una buona parte di mondo. Ma si preannunciavano anche due fronti contrapposti nella interpretazione di quegli eventi che ebbero peso nel tempo e che ancora oggi ci interrogano su questioni nodali della politica.
Su un fronte si collocano coloro che hanno etichettato come sovversiva, e quindi in negativo, l’intera sequenza di quei fatti; sull’altro fronte si è posta la schiera di quanti hanno riconosciuto il movimento giovanile del tempo come modello di riferimento per una diversa visione della storia in termini di liberazione da dispotismi di ogni genere. E le versioni che si vanno profilando sulla stampa e nella memoria di esperti e militanti del tempo confermano quanto annunciato.
Non è questo lo spazio per riproporre un faccia a faccia delle due versioni su quel “caldo” periodo della storia del secolo passato ma forse, a tempo trascorso, possiamo giovarci del pensiero di un autorevole pensatore che ebbe l’intuito di affermare che il senso della storia lo si coglie solo al momento in cui essa volge nella fase conclusiva. Quasi a confermare l’antico adagio: la morale della favola si delinea a fatto compiuto.
Si può partire da una espressione di uno studioso che al maggio francese dedicò interesse anche per avervi preso parte e assegnò a quella stagione una prospettiva di annuncio profetico. Si tratta di Alain Tourenne che ebbe a scrivere quasi in apertura della sua cronaca sul movimento giovanile d’oltralpe: Ce n’est q’un début… non è che un inizio. A suo modo il docente all’università di Nanterre, che rappresentò uno dei centri del fermento giovanile francese, dava risalto a quel motto che rappresentò diffusamente il progetto dei giovani del ’68: l’immaginazione al potere.
Per chi lo ha vissuto, il sessantotto in qualche modo ha avuto il peso di una svolta storica destinata a segnare le coscienze e la volontà di “esserci”, in contrapposizione ad un potere che invece, per sua natura, si prodiga nel diffondere cultura di assenteismo e di adeguamento allo status quo. C’è più di un testimone e militante del tempo che conferma la tesi, diffusa tra molti protagonisti di quella stagione, che il ’68 anticipò il senso e il valore che oggi si cerca a fatica di rivendicare per la cosiddetta “società civile”.
E questo avvenne proprio nei confronti degli imperi e della politica che imperversavano su fronti anche contrapposti. Ed ecco allora l’adesione passionale di quei giovani agli ideali di Martin Luther King, alle istanze di liberazione dell’oppressione dei popoli da ogni forma di schiavitù, alla ferma volontà di emancipazione della classe operaia dalle catene di montaggio di un lavoro alienante e non equamente remunerato, come pure alla cultura della nonviolenza che veniva alimentata da testimoni di provenienza culturale e religiosa diversa. E furono giovani gli studenti di Berkley (USA) che testimoniarono con veemenza e coraggio contro la disumana guerra del Vietnam; così come fu un giovane, Jan Palak che, con il sacrificio della sua vita a Piazza S. Venceslao (Praga), divenne il simbolo della resistenza all’invasione delle nazioni dell’Europa dell’est da parte delle milizie sovietiche.
Come non riconoscere questi meriti a quei movimenti di massa che nei giovani, ma non solo, trovarono testimoni del tutto coerenti? E non erano certo tempi di… quieto vivere. Furono giovani disturbatori non solo di forze che rappresentavano la politica del passato ma anche di partiti che in qualche modo si andavano affermando come soggetti votati al cambiamento e comunque provenienti da istanze di liberazione sollevate dalla storia e dalla cultura del marxismo che si andava affermando in Europa e nel mondo. Ma, e qui siamo al punto nodale, quella generazione giovanile in movimento colse alcune gravi contraddizioni che segnavano anche il partito principe della sinistra.
Scrive Gad Lerner in un suo recente intervento apparso su Micromega: “Il sessantotto dà ancora tanto fastidio…” come lo diede allora. Le ragioni che egli adduce derivano dalla posizione rigida degli organi di partito che si sentivano e si sentono disturbati dalle nuove generazioni. “Ma come si permettono questi giovinastri di venire a darci delle lezioni di coerenza e di rivoluzione?”.
Ed è certamente in questa stagione che si pone, in maniera vibrante, la questione di dare senso nuovo alla politica e quindi di ridisegnare il ruolo dei partiti perché siano strumenti di democrazia partecipata e non la “casta degli intoccabili”, che in questi tempi tanto ci allarma, che fornisce diffusi messaggi di voler mettere fuori campo la società civile.
Ho avuto modo di vivere di persona quella stagione di impegno sul versante del volontariato e della solidarietà sociale con giovani di provenienza geografica, sociale, politica e culturale diversa. Fu la stagione che vide “un altro sessantotto” tradursi nei campi di lavoro e nella creazione di gruppi impegnati nel sociale e allertati sulle sfide e le contraddizioni che la politica testimoniava in quei giorni. In Molise fu la stagione del movimento “Nuova Frontiera” che contaminò molte altre regioni italiane. Avemmo modo di sperimentare la diffidenza della politica nei confronti del nostro lavoro e soprattutto della nostra presa di coscienza critica su questioni che sollevavano allora, come oggi, il risentimento del popolo desto. Era difficile allora interloquire con la politica. Come lo è oggi. In questa fatica e resistenza consiste uno dei punti più significativi nel movimentismo giovanile del sessantotto. Ed è di forte attualità per la società e la politica di oggi, marcate dalla vena perenne di litigiosità e carente di senso del bene comune, il modello dialogico che si sviluppò all’interno di molti di quei gruppi tra persone di diversa provenienza. E non solo politica. Insomma furono loro, quei giovani, a creare il clima e le regole giuste per dibattere e per lavorare per obiettivi comuni. In qualche modo sono stati gli anticipatori di quel che oggi chiamiamo terzo settore. Allora fu molto più arduo veder riconosciuto il diritto di parola e di interlocuzione con la politica e le istituzioni. Gli episodi che ne danno testimonianza sono molti e ben documentati. Ma su questo aspetto forse è il caso di proseguire nella ricostruzione, anche per cogliere l’attualità che la cosa riveste in una stagione elettorale in cui è ben palese l’emergenza di un recupero di relazione tra politica e cittadini. Quella generazione la rivendicò.
Peccato che la storia di quella stagione, come fa molta cronaca necrofila di oggi, venne racchiusa e falsata nella predominante e quasi esclusiva messa in scena delle stragi di piazza. Il sessantotto più vero è quello che si è reso testimone di una volontà di riaccostamento della politica all’uomo.☺
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