Un terremoto il movimento avversativo de “L’infinito” di Leopardi: di fronte una siepe che impedisce allo sguardo la visione dell’orizzonte più lontano, “Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovraumani silenzi, e profondissima quiete”; quindi, forza dell’ossimoro, il dolce naufragare del poeta nel mare illimitato del pensiero e delle sue concezioni fantastiche. Chiave di volta dalle strettezze del reale alla sconfinata vastità dell’oltre ideale, il verbo fingere: come Leopardi nessuno ha esaltato l’immaginativa, facoltà unicamente umana, riscatto e salvezza dall’angustia dell’immanente e volano verso un trascendente cui tutti ambiscono, quand’anche neghino.
È il quid della poesia tradurre la materialità, fin la più greve e onusta, in un pulviscolo aereo che si libra lieve, per tornare al peso originario dopo averlo deriso con volute ispirate e rivelatrici: perciò sono poetici la Loreto impagliata e il busto di Alfieri e le povere cose di pessimo, de “L’Amica di Nonna Speranza”, e poetici sono i minimi atti, i poveri strumenti umani avvinti alla catena della necessità di cui scrive Vittorio Sereni.
Terra della poesia, della tensione all’infinito e della nostalgia, sorta di infinità retroversa, sarebbe – per me è – il Molise.
Il Molise, lande desolate e silenzio che dura chilometri, interrotto solo da un frusciare di foglie o un cinguettio d’uccelli; il Molise del vento libero di ondeggiare; il Molise così aspro e selvaggio e straordinariamente naturale, monotono mai, maestà di monti e declivi sinuosi, coltivati a frutta e grano, più spesso coperti di boscaglia e faggeti o querceti; il Molise con le sue chiese romaniche, torri di guardia numerose e discrete, di una bellezza semplice e in tanto disarmante; il Molise di pietre muffite e vecchie imposte che affacciano su antri bui: anche nella contemplazione di quegli spiragli di un passato lontano l’immagi- nazione si dilata.
Il Molise dell’infinito: chissà, potrebbe essere questa la tanto decantata vocazione turistica della nostra regione, lungi dall’informe aggregato di ipermercati, dalla cementificazione a grappolo, dalla posa manieristica e snaturante di prati all’inglese e recinti da fields.
Lo cerco ogni giorno l’infinito nel Molise, mentre cammino specie; di volta in volta ne trovo un pezzetto, l’essenziale per sollevare lo spirito; in occasioni speciali, poi, la ricerca si rivela più fruttuosa. Così mi è capitato di recente, in coincidenza di due eventi disparati: lo spettacolo dei falò accesi in onore di San Giorgio nel paese paterno, Mirabello Sannitico, e la visita alla chiesa rupestre di Santa Maria delle Grotte a Rocchetta al Volturno, in provincia di Isernia.
A Mirabello, la festa per San Giorgio, patrono del paese, si protrae per una settimana ed è incorniciata dal rito dei falò, accesi una prima volta la sera del giorno sedici di aprile, una seconda volta la sera della vigilia della festa vera e propria, il ventidue aprile. I falò, detti laure, pire composte da ramoscelli d’ulivo o stecchi e arbusti secchi, vengono allestiti spontaneamente dai mirabellesi nel paese, nelle campagne circostanti e, in numero di tredici, lungo la strada che conduce alla chiesa intitolata al santo patrono, la badìa di San Giorgio, situata su di un colle di fronte al paese. Stando all’inter- pretazione fornitane dall’antropologo Mauro Gioielli, le laure avrebbero assolto in origine ad una triplice funzione di purificazione, propiziazione, tutela; di fatto i mirabellesi di ora vivono il rito dei fuochi come un’opportunità di condivisione e gioia tra amici e parenti, e come momento di raccoglimento e riflessione fomentati dal calore del fuoco.
Quest’anno le laure le ho viste da Ferrazzano, da un paio di chilometri di distanza in linea d’aria e dall’alto, quindi: le luci dei fuochi a puntellare il paese sottostante e le sue contrade mi hanno lasciato dentro il sapore buono della tradizione devota e della speranza; nel silenzio buio di Ferrazzano, al solito fresco e ventilato, quel bagliore vivo e morbido mi ha immerso nel magico incanto fuori dal tempo che è per me l’infinito.
Stesso trasporto durante la visita alla chiesa rupestre di Santa Maria delle Grotte, a Rocchetta al Volturno, questa volta in diurno e in compagnia di un gruppo nutrito di amici e conoscenti, tutti guidati dall’architetto Franco Valente, eccezionale conoscitore e divulgatore della cultura archeologica e artistica del Molise. Santa Maria delle Grotte è tra le meraviglie misconosciute della nostra regione: addossata ad una parete di roccia, non visibile dalla strada e raggiungibile solo tramite una rampa di scale intagliate nel terriccio, la chiesa, di origine benedettina, emerge all’improvviso da uno sfolgorio di verde vario coi suoi blocchi robusti di travertino lievemente rosato, ed è in quel luogo tanto ben inserita, accoccolata tra rupi e bosco, che, dopo la prima sorpresa, pare quasi ovvio debba trovarvisi, come nel suo habitat naturale. La sovrapposizione di stili che caratterizza la chiesa, tanto per quel che riguarda l‘aspetto architettonico-strutturale quanto per quel che riguarda il profilo iconico e pittorico, da una parte conferma la lunga presenza e il funzionamento plurisecolare di Santa Maria delle Grotte, dall’altra rende problematici la ricostruzione della storia del monumento ed il riconoscimento delle varie sue fasi di ampliamento e ristrutturazione. Lo ha ben sottolineato la nostra guida, nel mentre che ci esponeva tutto lo scibile intorno alla chiesa.
Io, rapita da tanta bellezza, sono stata felice di sapere, ma anche di sapere di non poter sapere oltre: poco importa l’esatta cognizione della realtà quando cerchi l’evasione della fantasia e ne segui lo slancio libertario; allora l’incompiuto, la frattura non rimediabile, il punto di oscurità sono anzi più funzionali.
Sempre Leopardi, nello Zibaldone, sosteneva che il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago: per quel che vale, ha tutto il mio appoggio.
A presto. ☺
LucianaZingaro@libero.it
Un terremoto il movimento avversativo de “L’infinito” di Leopardi: di fronte una siepe che impedisce allo sguardo la visione dell’orizzonte più lontano, “Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovraumani silenzi, e profondissima quiete”; quindi, forza dell’ossimoro, il dolce naufragare del poeta nel mare illimitato del pensiero e delle sue concezioni fantastiche. Chiave di volta dalle strettezze del reale alla sconfinata vastità dell’oltre ideale, il verbo fingere: come Leopardi nessuno ha esaltato l’immaginativa, facoltà unicamente umana, riscatto e salvezza dall’angustia dell’immanente e volano verso un trascendente cui tutti ambiscono, quand’anche neghino.
È il quid della poesia tradurre la materialità, fin la più greve e onusta, in un pulviscolo aereo che si libra lieve, per tornare al peso originario dopo averlo deriso con volute ispirate e rivelatrici: perciò sono poetici la Loreto impagliata e il busto di Alfieri e le povere cose di pessimo, de “L’Amica di Nonna Speranza”, e poetici sono i minimi atti, i poveri strumenti umani avvinti alla catena della necessità di cui scrive Vittorio Sereni.
Terra della poesia, della tensione all’infinito e della nostalgia, sorta di infinità retroversa, sarebbe – per me è – il Molise.
Il Molise, lande desolate e silenzio che dura chilometri, interrotto solo da un frusciare di foglie o un cinguettio d’uccelli; il Molise del vento libero di ondeggiare; il Molise così aspro e selvaggio e straordinariamente naturale, monotono mai, maestà di monti e declivi sinuosi, coltivati a frutta e grano, più spesso coperti di boscaglia e faggeti o querceti; il Molise con le sue chiese romaniche, torri di guardia numerose e discrete, di una bellezza semplice e in tanto disarmante; il Molise di pietre muffite e vecchie imposte che affacciano su antri bui: anche nella contemplazione di quegli spiragli di un passato lontano l’immagi- nazione si dilata.
Il Molise dell’infinito: chissà, potrebbe essere questa la tanto decantata vocazione turistica della nostra regione, lungi dall’informe aggregato di ipermercati, dalla cementificazione a grappolo, dalla posa manieristica e snaturante di prati all’inglese e recinti da fields.
Lo cerco ogni giorno l’infinito nel Molise, mentre cammino specie; di volta in volta ne trovo un pezzetto, l’essenziale per sollevare lo spirito; in occasioni speciali, poi, la ricerca si rivela più fruttuosa. Così mi è capitato di recente, in coincidenza di due eventi disparati: lo spettacolo dei falò accesi in onore di San Giorgio nel paese paterno, Mirabello Sannitico, e la visita alla chiesa rupestre di Santa Maria delle Grotte a Rocchetta al Volturno, in provincia di Isernia.
A Mirabello, la festa per San Giorgio, patrono del paese, si protrae per una settimana ed è incorniciata dal rito dei falò, accesi una prima volta la sera del giorno sedici di aprile, una seconda volta la sera della vigilia della festa vera e propria, il ventidue aprile. I falò, detti laure, pire composte da ramoscelli d’ulivo o stecchi e arbusti secchi, vengono allestiti spontaneamente dai mirabellesi nel paese, nelle campagne circostanti e, in numero di tredici, lungo la strada che conduce alla chiesa intitolata al santo patrono, la badìa di San Giorgio, situata su di un colle di fronte al paese. Stando all’inter- pretazione fornitane dall’antropologo Mauro Gioielli, le laure avrebbero assolto in origine ad una triplice funzione di purificazione, propiziazione, tutela; di fatto i mirabellesi di ora vivono il rito dei fuochi come un’opportunità di condivisione e gioia tra amici e parenti, e come momento di raccoglimento e riflessione fomentati dal calore del fuoco.
Quest’anno le laure le ho viste da Ferrazzano, da un paio di chilometri di distanza in linea d’aria e dall’alto, quindi: le luci dei fuochi a puntellare il paese sottostante e le sue contrade mi hanno lasciato dentro il sapore buono della tradizione devota e della speranza; nel silenzio buio di Ferrazzano, al solito fresco e ventilato, quel bagliore vivo e morbido mi ha immerso nel magico incanto fuori dal tempo che è per me l’infinito.
Stesso trasporto durante la visita alla chiesa rupestre di Santa Maria delle Grotte, a Rocchetta al Volturno, questa volta in diurno e in compagnia di un gruppo nutrito di amici e conoscenti, tutti guidati dall’architetto Franco Valente, eccezionale conoscitore e divulgatore della cultura archeologica e artistica del Molise. Santa Maria delle Grotte è tra le meraviglie misconosciute della nostra regione: addossata ad una parete di roccia, non visibile dalla strada e raggiungibile solo tramite una rampa di scale intagliate nel terriccio, la chiesa, di origine benedettina, emerge all’improvviso da uno sfolgorio di verde vario coi suoi blocchi robusti di travertino lievemente rosato, ed è in quel luogo tanto ben inserita, accoccolata tra rupi e bosco, che, dopo la prima sorpresa, pare quasi ovvio debba trovarvisi, come nel suo habitat naturale. La sovrapposizione di stili che caratterizza la chiesa, tanto per quel che riguarda l‘aspetto architettonico-strutturale quanto per quel che riguarda il profilo iconico e pittorico, da una parte conferma la lunga presenza e il funzionamento plurisecolare di Santa Maria delle Grotte, dall’altra rende problematici la ricostruzione della storia del monumento ed il riconoscimento delle varie sue fasi di ampliamento e ristrutturazione. Lo ha ben sottolineato la nostra guida, nel mentre che ci esponeva tutto lo scibile intorno alla chiesa.
Io, rapita da tanta bellezza, sono stata felice di sapere, ma anche di sapere di non poter sapere oltre: poco importa l’esatta cognizione della realtà quando cerchi l’evasione della fantasia e ne segui lo slancio libertario; allora l’incompiuto, la frattura non rimediabile, il punto di oscurità sono anzi più funzionali.
Sempre Leopardi, nello Zibaldone, sosteneva che il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago: per quel che vale, ha tutto il mio appoggio.
Un terremoto il movimento avversativo de “L’infinito” di Leopardi: di fronte una siepe che impedisce allo sguardo la visione dell’orizzonte più lontano, “Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovraumani silenzi, e profondissima quiete”; quindi, forza dell’ossimoro, il dolce naufragare del poeta nel mare illimitato del pensiero e delle sue concezioni fantastiche. Chiave di volta dalle strettezze del reale alla sconfinata vastità dell’oltre ideale, il verbo fingere: come Leopardi nessuno ha esaltato l’immaginativa, facoltà unicamente umana, riscatto e salvezza dall’angustia dell’immanente e volano verso un trascendente cui tutti ambiscono, quand’anche neghino.
È il quid della poesia tradurre la materialità, fin la più greve e onusta, in un pulviscolo aereo che si libra lieve, per tornare al peso originario dopo averlo deriso con volute ispirate e rivelatrici: perciò sono poetici la Loreto impagliata e il busto di Alfieri e le povere cose di pessimo, de “L’Amica di Nonna Speranza”, e poetici sono i minimi atti, i poveri strumenti umani avvinti alla catena della necessità di cui scrive Vittorio Sereni.
Terra della poesia, della tensione all’infinito e della nostalgia, sorta di infinità retroversa, sarebbe – per me è – il Molise.
Il Molise, lande desolate e silenzio che dura chilometri, interrotto solo da un frusciare di foglie o un cinguettio d’uccelli; il Molise del vento libero di ondeggiare; il Molise così aspro e selvaggio e straordinariamente naturale, monotono mai, maestà di monti e declivi sinuosi, coltivati a frutta e grano, più spesso coperti di boscaglia e faggeti o querceti; il Molise con le sue chiese romaniche, torri di guardia numerose e discrete, di una bellezza semplice e in tanto disarmante; il Molise di pietre muffite e vecchie imposte che affacciano su antri bui: anche nella contemplazione di quegli spiragli di un passato lontano l’immagi- nazione si dilata.
Il Molise dell’infinito: chissà, potrebbe essere questa la tanto decantata vocazione turistica della nostra regione, lungi dall’informe aggregato di ipermercati, dalla cementificazione a grappolo, dalla posa manieristica e snaturante di prati all’inglese e recinti da fields.
Lo cerco ogni giorno l’infinito nel Molise, mentre cammino specie; di volta in volta ne trovo un pezzetto, l’essenziale per sollevare lo spirito; in occasioni speciali, poi, la ricerca si rivela più fruttuosa. Così mi è capitato di recente, in coincidenza di due eventi disparati: lo spettacolo dei falò accesi in onore di San Giorgio nel paese paterno, Mirabello Sannitico, e la visita alla chiesa rupestre di Santa Maria delle Grotte a Rocchetta al Volturno, in provincia di Isernia.
A Mirabello, la festa per San Giorgio, patrono del paese, si protrae per una settimana ed è incorniciata dal rito dei falò, accesi una prima volta la sera del giorno sedici di aprile, una seconda volta la sera della vigilia della festa vera e propria, il ventidue aprile. I falò, detti laure, pire composte da ramoscelli d’ulivo o stecchi e arbusti secchi, vengono allestiti spontaneamente dai mirabellesi nel paese, nelle campagne circostanti e, in numero di tredici, lungo la strada che conduce alla chiesa intitolata al santo patrono, la badìa di San Giorgio, situata su di un colle di fronte al paese. Stando all’inter- pretazione fornitane dall’antropologo Mauro Gioielli, le laure avrebbero assolto in origine ad una triplice funzione di purificazione, propiziazione, tutela; di fatto i mirabellesi di ora vivono il rito dei fuochi come un’opportunità di condivisione e gioia tra amici e parenti, e come momento di raccoglimento e riflessione fomentati dal calore del fuoco.
Quest’anno le laure le ho viste da Ferrazzano, da un paio di chilometri di distanza in linea d’aria e dall’alto, quindi: le luci dei fuochi a puntellare il paese sottostante e le sue contrade mi hanno lasciato dentro il sapore buono della tradizione devota e della speranza; nel silenzio buio di Ferrazzano, al solito fresco e ventilato, quel bagliore vivo e morbido mi ha immerso nel magico incanto fuori dal tempo che è per me l’infinito.
Stesso trasporto durante la visita alla chiesa rupestre di Santa Maria delle Grotte, a Rocchetta al Volturno, questa volta in diurno e in compagnia di un gruppo nutrito di amici e conoscenti, tutti guidati dall’architetto Franco Valente, eccezionale conoscitore e divulgatore della cultura archeologica e artistica del Molise. Santa Maria delle Grotte è tra le meraviglie misconosciute della nostra regione: addossata ad una parete di roccia, non visibile dalla strada e raggiungibile solo tramite una rampa di scale intagliate nel terriccio, la chiesa, di origine benedettina, emerge all’improvviso da uno sfolgorio di verde vario coi suoi blocchi robusti di travertino lievemente rosato, ed è in quel luogo tanto ben inserita, accoccolata tra rupi e bosco, che, dopo la prima sorpresa, pare quasi ovvio debba trovarvisi, come nel suo habitat naturale. La sovrapposizione di stili che caratterizza la chiesa, tanto per quel che riguarda l‘aspetto architettonico-strutturale quanto per quel che riguarda il profilo iconico e pittorico, da una parte conferma la lunga presenza e il funzionamento plurisecolare di Santa Maria delle Grotte, dall’altra rende problematici la ricostruzione della storia del monumento ed il riconoscimento delle varie sue fasi di ampliamento e ristrutturazione. Lo ha ben sottolineato la nostra guida, nel mentre che ci esponeva tutto lo scibile intorno alla chiesa.
Io, rapita da tanta bellezza, sono stata felice di sapere, ma anche di sapere di non poter sapere oltre: poco importa l’esatta cognizione della realtà quando cerchi l’evasione della fantasia e ne segui lo slancio libertario; allora l’incompiuto, la frattura non rimediabile, il punto di oscurità sono anzi più funzionali.
Sempre Leopardi, nello Zibaldone, sosteneva che il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago: per quel che vale, ha tutto il mio appoggio.
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