l’ira
26 Febbraio 2010 Share

l’ira

 

A proposito di “ira”, vorrei partire da due vicende, molto differenti fra loro (nel tempo e nello spazio) ma significative: la prima è l’episodio famoso dell’ira di Mosé, che rompe le Tavole della Legge, quando, scendendo dal monte Sinai, dove era salito per ricevere nuove indicazioni da Jahvé, vede con immenso stupore che il popolo giudaico ha dimenticato il culto del vero Dio, praticando l’idolatria.

L’altro sconfortante avvenimento riguarda la rivolta violenta degli immigrati a Rosarno (RC), che ha portato alla luce i livelli disumani di riduzione a schiavitù dei lavoratori immigrati, regolari o clandestini, prevalentemente provenienti dall’Africa settentrionale, ad opera della ‘ndrangheta calabrese ma anche di piccoli proprietari terrieri, a loro volta vessati dalle assurde regole del libero mercato, per il quale un chilo di arance viene pagato fra 7 e 10 centesimi di euro.

Una infima miseria ed una grossolana provocazione al buon senso comune.

I due episodi offrono alla parola “ira” un significato apparentemente contiguo, ma nella sostanza molto lontano l’uno dall’altro. La narrazione biblica, che descrive Mosé adirato,  rappresenta un personaggio tradito dal suo popolo, dimentico degli insegnamenti per i quali esso poteva definirsi diverso da altri, in quanto monoteista e teso alla ricerca della Terra promessa. Ciò lascia capire che, se un popolo, ma anche un individuo, non è rigorosamente guidato, pur in presenza di un patto condiviso per il bene della collettività, come per esempio il dotarsi di leggi necessarie alla tutela e alla salvaguardia di tutti, esso si allontana certamente dalle leggi, divenendo vittima di se stesso, del proprio processo di anarchia sociale, delle arroganti giustificazioni di comportamenti prevaricatori.  Una collettività, quindi, ha bisogno di punti di riferimento e a questa esigenza rispondono le leggi di cui la collettività si dota per un rettilineo e condiviso cammino di coesistenza pacifica.

La cronaca dolorosa di Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, dove ci sono stati scontri fra gli abitanti e gli immigrati, fa emergere tutta la drammaticità dell’esistenza infelice ed amara dell’immigrato, caricandolo di odio, di aggressività, che si trasformano facilmente in comportamenti violenti, dettati da un rancore covato nel silenzio amaro e solitario degli schiavi.

Gli immigrati in prevalenza nordafricani, regolari o clandestini, si sono energicamente opposti alle inumane condizioni di lavoro di vita fondate sullo sfruttamento schiavistico. La raccolta delle arance nella piana di Rosarno ogni anno riesce a convogliare diverse migliaia di lavoratori stagionali, che, pur di guadagnare una “miserevole paga”, si sottopongono a condizioni molto precarie di lavoro, essi che per la stragrande maggioranza dei casi sono costretti ad abbandonare le loro terre per la povertà endemica o per ragioni esclusivamente politiche.

Le scene di violenta protesta espressa dagli immigrati, anche contro inermi cittadini di Rosarno, sono comunque la raffigurazione di un disagio terribile che è insopportabile agli occhi di una  parte consistente della nostra società. Il lavoro deve essere lo strumento di una vita dignitosa per chiunque decida di insediarsi sul nostro territorio metropolitano, per chiunque decida con razionale discernimento di fermarsi nel nostro paese. Noi, nel contempo, dobbiamo impegnarci a favorire l’integrazione degli immigrati, chiedendo sì il rispetto delle nostre regole costituzionali, senza peraltro sottoporli ad un regime xenofobo di sopraffazione (come oggi le leggi securitarie stanno invece facendo, inventandosi il reato di clandestinità o del soggiorno a punti). Se c’è il lavoro, e con esso la salvaguardia e il rispetto di norme convenzionalmente accettate, c’è, come riscontro, una vita dignitosa, una tensione civile ed una motivazione ideale per accrescere e per partecipare  al benessere della comunità alla quale si intende associarsi. Di qui, l’ira dell’immigrato, che è rabbia, rancore, anche violenza distruttrice, naturalmente da condannare ma anche da capire.

La collera e l’indignazione degli immigrati e dei poveri sono anche il nostro sdegno e la nostra collera di cittadini dinanzi alla quotidiana distruzione di quelle norme tutorie della dignità della persona e del lavoro. Con la motivazione diffusa oggi, oltre ogni misura, della crisi economica che punge e tormenta la pelle di milioni di famiglie nel mondo ed in Italia, non consideriamo giusto l’abbattimento di ogni tutela sociale e sindacale duramente conquistata in questi anni dalla classe lavoratrice e da quella operaia in particolare.

Pensiamo innanzitutto ai lavoratori sardi della multinazionale ALCOA di Portovesne, Cagliari, che hanno attuato una protesta energica, riversandosi sulla pista dell’aeroporto di Cagliari e andando a Roma, dinanzi al palazzo del Governo, a gridare la loro rabbia per la ventilata chiusura dell’azienda.

Prendiamo in considerazione l’industria umbra della Merloni (l’azienda che costruisce frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie tra Nocera Umbra e Fabriano). 

Occupiamoci di Termini Imprese, dove la Fiat ha deciso di chiudere nel 2011 lo stabilimento e di gettare letteralmente sul lastrico migliaia di famiglie che da anni hanno costruito le loro storie sull’insediamento automobilistico e sulla capacità di espansione dell’indotto dell’auto.

Interessiamoci della Geomeccanica di Venafro/Pozzilli, in provincia di Isernia, e della dolorosa sofferenza di questi lavoratori e delle loro famiglie che da mesi non vedono più un centesimo di euro. Ecco, dinanzi a questo penoso scenario, di cui è anche responsabile l’attuale classe dirigente del paese, che perde tempo in chiacchiericci immorali relativi alla propria condizione di privilegio feudale (il processo breve; il legittimo impedimento; le intercettazioni telefoniche; ma anche lo scudo fiscale; il rientro dei capitali in prevalenza mafiosi dall’estero in forma anonima). Dinanzi a questo contesto penosamente immorale e antidemocratico, che è l’anticamera di una condizione politica di “servaggio” già miseramente presente, oggi, in Italia, ebbene è giusto farsi prendere dall’ira e, con veemente impegno, è necessario riprendere in mano la logica e il vocabolario della lotta antagonista fondata sull’aggregazione civile e condivisa, che i sindacati, soprattutto di base, esprimono ed indicano.

In questo senso l’ira è l’espressione aperta di uno sconforto, che determina la capacità di ribellarsi e di tentare di ri-costruire un futuro migliore, fondato sul rispetto rigoroso delle leggi ma anche su un convincimento, che ci sembrava presente nel tessuto sociale, che cioè l’uomo non è una bestia da soma, ma è una persona con il suo mondo spirituale e con il suo bagaglio civile e culturale insieme. ☺

bar.novelli@micso.net

 

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