lotta di classe
16 Aprile 2010 Share

lotta di classe

 

Tutti i giorni apprendiamo dai notiziari di incidenti gravi o mortali sui posti di lavoro e ciò capita perché il lavoro non è ritenuto più come una attività utile alla società nel suo complesso e al soggetto che presta la sua opera in particolare:  infatti, il lavoro oggi è quasi unicamente espressione di disagio – lo testimoniano, per esempio, le condizioni ambientali nelle quali si svolge prevalentemente l’attività lavoratrice, situazioni nelle quali c’è il disprezzo per le norme tutorie più elementari – oppure manifestazione di precarietà ossia la forma legalmente più utilizzata di sfruttamento del/la lavoratore/trice nel totale disinteresse per le condizioni ambientali nelle quali il lavoratore si trova, ma soprattutto nel disprezzo delle norme della Costituzione, che mette al centro della sua filosofia l’uomo e il diritto ad una vita dignitosa per sé e per la sua famiglia. L’esperienza dolorosa – sono morti, infatti, 7 operai – alla fabbrica torinese di proprietà della multinazionale Thyssen-Krupp o nel porto di Genova, dove sono morti nella stiva di una nave due operai, lo sta a dimostrare con amarezza.

Tuttavia, noi sappiamo che la Carta costituzionale fin dal suo nascere e prima ancora fin dalle discussioni accese fra i Costituenti, mette al centro della sua articolazione l’uomo e il lavoro, ossia il “valore sociale” del lavoro. Si potrà obiettare che i tempi sono cambiati, che con il neo-liberismo, che ha sopraffatto altre teorie economicistiche, ha finito con il prevalere la globalizzazione economica che, eliminando le frontiere,  si fonda sul totale asservimento del lavoratore all’imprenditore o alla multinazionale; si potrà eccepire che la cultura liberal-progressista, la cultura cattolica e quella socialista-comunista, che hanno dato vita alla Costituzione del 1948, sembrano non avere più cittadinanza nell’èra globalizzata, che gli interessi e le prospettive del datore di lavoro sono molto più importanti delle condizioni di vita e della dignità del/la lavoratore/trice che deve essere sempre tutelata; si potrà convenire che tale diminuzione dei livelli di civiltà rappresenti in effetti la prova manifesta ed innegabile che siamo sulla soglia del baratro, sul limite del non-ritorno, di fronte al completo annichilimento-sfruttamento dell’uomo sull’uomo come agli albori del mondo moderno, del mondo civile, quando si facevano valere nella realtà e nella storia quotidiana quei soprusi che hanno portato all’affermarsi della schiavitù e al dissanguamento animalesco dell’uomo, avviando definitivamente e senza più infingimenti quella che la storia indica come la “tratta degli schiavi”, ancora allo stato attuale delle cose ignominiosamente operante sull’onda della generale superficialità del nord del mondo opulento e della civiltà nord-occidentale – la nostra, che vergogna!!. -.

Ma c’è gente che non solo ciò non vorrebbe che capitasse ancora ma che, reclamando il diritto della tutela della dignità della persona umana, indichi nell’aggregazione politica e sindacale, nella lotta di classe, nello scontro dialettico delle parti sociali lo strumento sicuramente ancora idoneo a difendere il lavoro, la sua funzione sociale nonché le norme che tutelano la dignità dell’uomo.

Ma la cosiddetta “legge Biagi”, dal nome del giuslavorista bolognese ucciso dalle Brigate Rosse, sembra procedere nella direzione della salvaguardia degli interessi del datore di lavoro e in quella della “reductio in finem” della figura del lavoratore e nella ignoranza completa che esso è una persona che va salvaguardata nei suoi diritti fondamentali e nella sua capacità professionale, che il datore di lavoro deve rispettare nonché valorizzare, anche per il suo tornaconto economico. Ora lasciando il terreno propriamente politico vorrei intraprenderne un altro, egualmente significativo, che però si incammini su un versante propriamente storico-culturale e ciò lo propongo a me senza né presunzioni né alterità piccolo-borghesi.

Il tema del lavoro è presente nel dettato costituzionale fin dal suo incipit: infatti, l’art. 1, c.1,  C. così recita “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Pertanto, il lavoro dall’esame delle varie norme che lo disciplinano è estremamente importante per il legislatore, anzi esso è la radice dell’ordinamento costituzionale nel suo complesso. L’art. 1 che dice che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro ha dato spazio nella dottrina giuridica a diverse interpretazioni, segno chiaro della stessa nascita, della genesi della Carta costituzionale quale carta di compromesso fra le diverse correnti di pensiero e di ideologia che hanno creato la Costituzione; infatti, è sufficiente ricordare la cultura comunista del PCI, quella cattolica del Partito popolare di don Sturzo, quella laica, liberale e radicale che hanno altresì svolto un compito essenziale nel processo di costruzione del dettato costituzionale. Infatti, il richiamo al lavoro è un accenno a tutta la classe lavoratrice nel suo complesso; alla totalità del lavoro inteso come forma di esplicazione della propria abilità e della propria professionalità, utili al datore di lavoro e altresì gratificanti per il lavoratore.

Tuttavia, alla luce di considerazioni anche generali, appare evidente che il lavoro dipendente risulti in posizione svantaggiata e dunque bisognoso di maggiore tutela. Ciò, tuttavia, non vuol dire che altre tipologie di lavoro siano ignorate nella carta costituzionale: infatti, l’art. 45, comma 2, riconosce nell’artigianato un elemento nodale della produzione dei beni; l’art. 41 considera l’attività imprenditoriale privata libera ed essenziale nel processo produttivo del paese. Questi due articoli, ma in effetti tutto l’impianto concettuale e politico della Costituzione, testimoniano dell’intreccio “creativo” e “propositivo” di culture antitetiche che però sono state sinergiche nella costruzione della Carta costituzionale, lasciando con ciò un messaggio nobile alle generazioni che si sono succedute alla sua promulgazione, messaggio che allo stato attuale della storia italiana viene ignorato se non addirittura calpestato.

Questo elemento culturale ed ideologico si nota perfettamente laddove, per esempio al c. 2, art. 41,  il legislatore indichi nello svolgimento del lavoro imprenditoriale un elemento di “utilità sociale” in modo che esso “non rechi danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.  La stessa proprietà privata, elemento essenziale della forma dello Stato liberale, deve essere accessibile a tutti e deve avere una funzione sociale – art. 42, c. 2 -.  Il lavoro ha una funzione sociale, come pure l’attività dell’imprenditore, che deve essere improntata al bene, alla sicurezza, alla dignità del lavoratore dipendente, è frutto di una intelligente mediazione fra due culture che si sono fronteggiate fin dal momento della lotta resistenziale contro il nazi-fascismo e che poi ha determinato la nascita della Carta costituzionale, ossia la cultura liberal-cattolica e quella marxista. ☺             bar.novelli@micso.net     

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