Marchiati
2 Gennaio 2014 Share

Marchiati

Proseguendo nella nostra esplorazione dei termini anglofoni maggiormente in uso nell’italiano corrente, vorrei soffermarmi su un vocabolo che sta prendendo piede, segno di un diverso modo di pensare. Quando sentiamo pronunciare la parola brand [pronuncia: brend] nella nostra mente sembra materializzarsi una scintillante, pluriaffermata azienda di prodotti di grido, quella – per intenderci – dalla pubblicità sofisticata ed accattivante, non certamente una meno appariscente, docile mandria di mucche, al pascolo in una prateria del Far West… Eppure il vocabolo ha a che fare con queste ultime!

“Marchio a fuoco” (per il bestiame) è il significato originale che questo termine ha nella lingua inglese, modificatosi successivamente per indicare in senso figurato ciò che contraddistingue un particolare prodotto, e che per noi oggi equivale a garanzia di qualità. Il marchio di fabbrica sembra però avere mutato funzione: nella società occidentale ormai esso identifica non soltanto un oggetto bensì – a detta di numerosi esperti del settore – il legame psicologico che il consumatore stabilisce con quel determinato prodotto (o servizio). La scelta di una marca sta quindi ad indicare l’instaurarsi di un legame emozionale con essa. Ogni brand esprime un mondo culturale, valori o pseudovalori, in cui il consumatore tende a rispecchiarsi e che vorrebbe assimilare.

Il nostro tempo vive ormai all’ insegna del “marchio”: vestire “firmato”, utilizzare prodotti “doc”, sono comportamenti sempre più diffusi, accolti, ritenuti legittimi. Domina il desiderio spasmodico dell’originalità ad ogni costo. Da qui la rincorsa al brand, tratto distintivo di qualcosa che possa essere considerato innovativo, carico di peculiarità e, soprattutto, di attrattiva.

E ciò non vale soltanto per i generi di consumo! Paradossalmente vengono utilizzati gli stessi criteri di giudizio anche per ciò che non dovrebbe rientrare nella categoria del “consumo”. Diritti, ideali, valori: per molti purtroppo sono semplicemente parole vecchie, desuete, che non comunicano più nulla: prive di novità, per nulla attraenti, prive di singolarità… avrebbero bisogno di rifarsi un’immagine, di ricostituirsi come brand alla moda, recuperare consenso!!

Oggi molti cercano di far passare la convinzione che abbiamo bisogno di altro, che la nostra società difetta di innovazione, che sia necessario ricorrere a modi più aggiornati di comunicare, che le relazioni sociali debbano basarsi su elementi diversi e più moderni rispetto al passato. Anche la politica cerca di cavalcare il vento del nuovo, rincorrendo una modernità di facciata, speculando sulle attese della gente sempre più amareggiata e priva di speranza per il futuro.

Ed allora vorrei  accostare allo “scalpitante” vocabolo brand una semplice parola italiana, al centro dello studio recente della sociologa Chiara Saraceno, “eredità”. La nostra esistenza non può prescindere dall’eredità: essa è il contesto in cui avvengono le nostre scelte, le scelte avvengono sempre nel contesto di ciò che abbiamo ereditato. Eredità è uguale a mappa di navigazione che ci viene consegnata e con la quale dobbiamo fare i conti quando vogliamo cambiare rotta.

Cosa propongono di veramente “nuovo” tutti coloro che vorrebbero sbarazzarsi del passato, quasi cancellarne la memoria, per far posto a “novità” sempre più scialbe e indefinite? Perché non riconoscere in ciò che il passato ha rappresentato la “novità” del sogno, delle speranze di uomini e donne in una umanità libera e solidale?

Si illude chi immagini di poter fare tabula rasa del proprio passato e di ricominciare da zero. L’eredità è sempre caratterizzata dalla necessità di venire ricevuta, rielaborata, fatta propria dal destinatario; non è mai subìta, ma sempre – in qualche modo e in qualche misura – accolta e trasformata.

Ecco cosa ci attende all’orizzonte, all’alba di un nuovo anno: “La responsabilità di avere gli occhi quando gli altri li hanno perduti” (J. Saramago).☺

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