mercato e competizione
22 Marzo 2010 Share

mercato e competizione

 

È opinione assai diffusa che ad originare le guerre siano gli interessi economici. Attraverso la guerra i popoli hanno dominato altri popoli al fine di controllare importanti risorse strategiche: un tempo per approvvigionarsi di schiavi quali forza lavoro a buon mercato, oggi, come negli ultimi 40 anni, per controllare il petrolio quale principale fonte energetica. E così via.

Ad un primo sguardo, quindi, appare che gli interessi economici siano proprio il movente dei conflitti bellici. Ma è doveroso rileggere questa affermazione con occhi più critici.

Per conquistare gli interessi economici in gioco se da un lato poniamo il conflitto bellico, dall’altro troviamo la competizione di mercato.

Il conflitto bellico conquista gli interessi economici attraverso la violenza della guerra, invece il mercato, se lasciato funzionare liberamente, consente di raggiungere un punto di equilibrio tra le parti. Le risorse strategiche, attraverso un efficiente meccanismo di formazione dei prezzi, vengono così scambiate tra i soggetti in gioco in modo pacifico.

Il risultato della guerra è il totale controllo delle risorse economiche da parte del più forte. Il risultato di mercato è uno scambio civile ed efficiente delle risorse stesse tra tutti coloro che vi partecipano.

È evidente che l’equilibrio di mercato può non piacere a chi attraverso la violenza riesce a raggiungere un vantaggio maggiore e questo può essere un incentivo per l’uomo politico a contravvenire alle leggi economiche di mercato. Al contrario in un mercato economico, la cui funzionalità sia assicurata dall’uomo politico, tutti possono operare a parità di incentivi e decidere liberamente se partecipare o meno alla civile formazione degli scambi.

Contravvenire alle regole di mercato significa anche “reprimere” gli altri partecipanti. In questo senso la violenza e la guerra nascono, nei paesi ricchi, come reazione alla repressione esercitata da chi tenta di sopraffare gli interessi altrui. E ciò può avvenire solo al di fuori di un mercato perfettamente funzionante.

La storia ci ricorda che spesso i popoli e gli stati hanno cercato di competere adottando politiche ostili, fuori mercato, quali forme di protezionismo, di ostruzionismo e di banditismo di tipo neo-coloniale. Il protezionismo nazionale, facilmente invocato come antidoto alla globalizzazione, non è altro che una forma di repressione esercitata verso gli altri paesi dai quali è lecito attendersi un’analoga risposta non cooperativa, ostile e pericolosa.

Ci pare infatti di poter evidenziare che vi è un legame, indiretto ma chiaro, tra protezionismo e nazionalismo economico, nazionalismo politico, conflitti commerciali e conflitti armati.

L'intensificazione delle relazioni commerciali internazionali, l'apertura verso l'estero dei sistemi economici, la crescente integrazione dei mercati reali e finanziari mondiali contribuiscono a creare rapporti pacifici, e anche i conflitti che inevitabilmente insorgono (insiti in tutte le relazioni umane e certamente non solo in quelle di ordine economico) vengono risolti non con la violenza ma con negoziazioni e accordi all'interno di un sistema di regole condivise. Quando, invece, allo scambio pacifico si sostituiscono la chiusura, la competizione colonialista e la protezione dei propri monopoli aumentano le probabilità di un conflitto violento e al di fuori delle regole. Al contrario, paesi che commerciano liberamente e che traggono reciproco vantaggio da questa cooperazione economica non hanno alcun interesse ad entrare in conflitto armato tra loro.

Cooperazione economica e regole condivise possono contribuire quindi a mantenere la pace tra le nazioni, e certamente non generano conflitti violenti. In altre parole, il commercio internazionale diventa un antidoto contro la guerra: più le economie di due paesi sono interdipendenti, e più i costi di un conflitto aumentano e si riducono le probabilità di scontro.

In conclusione, ci preme poter riaffermare che il mercato non è il “male”, non è il luogo selvaggio dello sfruttamento e della sopraffazione, perché il mercato è espressione della società civile. Nella sua intima essenza, il mercato è un luogo di relazioni umane, basate sulla fiducia e sulla propensione a cooperare, è un luogo di scambi liberi tra soggetti che riconoscono un comune insieme di regole, che sono parte di una comunità.

In questa ottica, le autorità pubbliche hanno come compito principale quello di mettere il mercato nelle condizioni più idonee affinché esso possa funzionare nel modo migliore e più efficiente possibile. Si tratta quindi di intervenire per garantire regole e controlli efficaci, in grado di consentire alle dinamiche del mercato di svolgersi nel pieno delle proprie potenzialità. Del resto, appare evidente che non esiste davvero alcun mercato senza un insieme chiaro e condiviso di regole e senza la fiducia nel fatto che esse vengano rispettate e fatte rispettare. Tali regole e tale fiducia sono beni pubblici che la politica deve tutelare ed alimentare, all'interno di una economia di mercato aperto, libero e concorrenziale.☺

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