nella chiesa ritrovata  di Teresa Labagnara
3 Settembre 2013 Share

nella chiesa ritrovata di Teresa Labagnara

 

Santa Maria delle Rose è il poetico nome col quale a Bonefro invochiamo la Madonna, signora delle rose e di maggio, mese a lei dedicato, in cui le rose sono in piena fioritura e non solo le rose: tutta la natura. Al colmo del suo crescere e fiorire la primavera canta al Signore che la feconda il suo magnificat, accordandosi con la beatitudine di Maria, piena di grazia nella sua maternità. E proprio il 31 maggio, il giorno liturgico del Magnificat, quindi della Visitazione della beata vergine Maria alla cugina Elisabetta, la nostra comunità, per felice iniziativa del parroco, ha celebrato la riapertura al culto della chiesa madre, danneggiata dal sisma del 2002. È stata questa l’occasione per reintegrare la venerazione di Maria alla luce della Visitazione, cui la nostra chiesa è per antica tradizione intitolata.

In folla siamo accorsi nella chiesa ritrovata: leggeri, intrigati, commossi. E anch’io, con un ritorno di speranza nel compimento della ricostruzione in tutto il paese. A colorare il mio orizzonte sarà stata l’ atmosfera rasserenante della chiesa restaurata, quella tinta rosa delle pareti che invita a distendersi nella preghiera e ad abbandonarsi a Dio. La preghiera si nutre della vita e anche dei tanti segni religiosi – colori, immagini, cose – di cui le chiese sono piene e che rispecchiano il nostro bisogno di fede, di protezione, di consolazione. Sono, questi segni, un tramite tra noi e Dio, parlano per noi, lasciando spazio al silenzio, allo sguardo adorante.

Nella mia rilettura della chiesa, fra impressioni riaffiorate dal passato e nuove suggestioni, mi è balenato il ricordo di Ain Karem (la fontana della vigna) dove è nato Giovanni Battista, situata in una fresca oasi di aranci e vigneti nel paesaggio montuoso della Giudea. Dal centro del villaggio un sentiero ombroso conduce in alto e sbocca in un piazzale, antistante la chiesa della Visitazione, dove il canto del Magnificat, trascritto in trenta lingue su maioliche colorate, saluta quelli che arrivano.

E qui, al tempo della pienezza, sale dalla lontana Nazareth, “fiore” della Galilea, Maria, la giovanissima vergine madre, dopo l’annuncio dell’angelo. Non si chiude nella contemplazione del miracolo sorto in lei. Dimentica fatica, rischio, convenzioni sociali e parte. Elisabetta, l’anziana parente che aspetta un figlio, ha bisogno di lei. E poi vuole farle una sorpresa. La gioia va condivisa. Si è felici solo insieme. I tre mesi trascorsi con la cugina sono per Maria una scuola di vita, segnata dalla presenza di Gesù. Soccorre, protegge, canta le lodi del Signore. Sperimenta il vero amore che è un intreccio inscindibile di preghiera e di azione. Si fa Madre per noi. È l’acqua cristallina che sgorga da una sorgente perenne di montagna e si divide in mille rivoli a saziare la nostra sete. Di lei dice Alda Merini: “E non venne fecondata da alcuno, / eppure generò come il poeta / cui basta uno sguardo / per riavere la sostanza del mondo”.

Nella mia chiesa respiro l’aria incontaminata di Maria.

Mi turba nel profondo quella domanda secca, perentoria, di sapore dantesco, che leggo sulla soglia: “Il mondo si divide fra oppressi e oppressori. Tu da che parte stai?”. È così fragile il confine che in noi separa l’oppresso dall’oppressore, così oscillante che non sono sicura di non averlo mai attraversato. Dentro, nella chiesa, qualcuno mi verrà in soccorso. Davanti al Crocifisso che misericordioso ci guarda dalla cappella del Sacramento, fra le due vetrate raffiguranti l’una Maria dell’annunciazione, l’altra Maria della visitazione, penso a Papa Francesco mentre visita i carcerati, mentre incontra i profughi di Lampedusa o entra in una favela. Cerca il contatto, il rapporto confidenziale, alla pari. Sorride, stringe mani, accarezza. Ascolta. Dà fiducia e conforto, perché i suoi sono slanci del cuore, come l’abbraccio di Francesco d’Assisi al lebbroso.

In fine mi è caro tornare indietro, a uno di quei giorni in cui la chiesa ferveva dei preparativi per la sua riapertura. La porta del campanile era aperta. Quasi automaticamente mi sono messa a salire la scala a chiocciola, che porta in cima. Sono sempre stata affascinata dal mistero dei campanili fin da quando, adolescente, leggevo Notre Dame de Paris. Il nostro campanile non nasconde un Quasimodo, il genio delle campane folle e disperato. Basta oggi un impulso elettrico per farle suonare, ma è un suono senza passione. Sapevo di trovare qualcosa che tanto tempo fa apparteneva alla mia famiglia. E l’ho vista, sull’ultimo pianerottolo proprio sotto l’orologio: la statua di santa Filomena, la chioma bruna coronata di fiori, il manto di seta rossa dei martiri, ricamato d’oro. Adornava la cappella della mia casa avita e una sua copia in piccolo, protetta da una campana di vetro, era sistemata sul comò nella camera dei nonni. In quella cappella si sono sposati i miei genitori e io ho ricevuto il battesimo. Un altro dono della mia chiesa.☺

terelaba@alice.it

 

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