pace e decrescita
2 Luglio 2012 Share

pace e decrescita

 

Il 3 giugno scorso si è svolta la V marcia della pace organizzata dall’ufficio della pace della provincia di Campobasso, il cui tema è stato pace e decrescita. Alcune associazioni avrebbero gradito affrontare l’argomento delle missioni italiane di guerra all’estero, rischiando tale questione di passare inosservata.

Niente da obiettare sulla consistenza culturale della “decrescita”; infatti, ora cerchiamo di definire il quadro socio-politico nel quale si potrebbe inserire l’oggetto tematico della “decrescita”.

La “decrescita” non è un rallentamento dello sviluppo, ma appare come una critica del modello dello sviluppo capitalistico basato sulla sovrapproduzione e sulla presunzione che le fonti di energie fossili del pianeta possano essere utilizzate fino al loro esaurimento completo.

La Terra è già pesantemente sottoposta ad uno sfruttamento irresponsabile da parte dell’uomo. Ed allora qual è la ragione vera della diffusione delle tematiche legate alla “decrescita”? Sicuramente la crisi economica scoppiata nel 2008, quella crisi degli istituti di credito americani che ha dato l’avvio alla recessione economico-finanziaria più grave di quella del 1929 e sicuramente la più cruda e pericolosa degli ultimi 100 anni. All’inizio la depressione è stata determinata dalla concessione di mutui a clienti che facevano parte della categoria di minima affidabilità (subprime), dal momento che già nel recente passato essi erano falliti o avevano conosciuto una rilevante difficoltà nel pagare i propri debiti. E ciò in prevalenza nel settore edilizio. In Italia, invece, è stato fortemente privilegiato il percorso della rottamazione delle automobili, degli incentivi alla installazione di impianti da fonti rinnovabili, in pratica senza vincoli ostativi per i costruttori e per le multinazionali dell’energia rinnovabile e neppure di tutela ambientale/paesaggistica o di difesa del patrimonio artistico/archeolo- gico, delle agevolazioni fiscali per la costruzione di nuove case, della costruzione di opere pubbliche costosissime e oltremodo inutili (Tav; i macrolavori delle chiuse veneziane nel porto di questa città; i lavori prossimi dell’autostrada Termoli-San Vittore, tutte opere inutili e gravose per il bilancio della pubblica amministrazione, in quanto il confronto “investimenti/benefici” per la collettività indica quanto esiziale per il bilancio dello stato sia la progettualità di grandi opere, che  acuiscono il deficit pubblico e di conseguenza la necessità di tassare ulteriormente i ceti popolari e meno abbienti).

Ora se le innovazioni tecnologiche rivolte all’aumento della produttività accrescono l’offerta di prodotti e di merce in misura chiaramente superiore alla domanda e ciò in tempi non lunghi determina una diminuzione dell’occupazione, quest’ultima riduce sensibilmente la domanda. Di qui, quella che viene definita “crescita”, al di là dell’aumento dei debiti pubblici, comincia (ha cominciato, purtroppo!) a far aumentare il numero dei disoccupati, dei cassaintegrati, degli esclusi dalla produzione, soggetti considerati tutti eccedenti ed inutili e ciò costituisce un’ingiuria all’uomo. Dunque, è il lavoro la chiave di volta di tutta la crisi d’oggi, che violentemente espelle dai luoghi di lavoro i lavoratori, riducendoli in condizione di precarietà inquietante, con la complicità della classe politica, quella che siede in Parlamento. Questa non approva leggi utili alla collettività nazionale ma solo misure legislative che colpiscono a morte la Carta Costituzionale, come ad esempio le prescrizioni sull’obbligo della parità di bilancio, che azzera così l’art. 81, oppure il decreto “sviluppo” approvato il 15 giugno scorso che mette al centro solo la “virtualità” del lavoro. Ora come si può ridurre il debito pubblico sul quale fa leva tutta la politica antipopolare e illiberale di questo governo, tecnico a parola ma sostanzialmente politico, visto che fa gli interessi delle banche e dei cinici manovratori della finanza internazionale il cui obiettivo palese è l’azzeramento delle autonomie degli Stati non solo europei ma del mondo intero? Come si fa a superare una crisi economica la più dura e persistente degli ultimi 100 anni? forse con una politica economica che riduce a schiavitù la classe lavoratrice di interi Paesi, oppure con la reductio in vinclis delle democrazie di paesi deboli economicamente?

La crescita produttiva ed economica  progredisce, se aumenta la domanda;  ma ciò si può ottenere se lo Stato o incrementa la spesa pubblica o riduce le tasse. Ora cosa hanno fatto il governo tecnico e i suoi tifosi che siedono in Parlamento? Hanno introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio nella Carta Costituzionale e ciò in parole povere ha voluto (e vuole) significare ridurre la spesa pubblica e aumentare le tasse. Dunque, il pareggio di bilancio è un autentico sopruso, è una brutale violenza che si è voluta perpetrare ai danni della Costituzione e nei confronti di quanti (cittadini dignitosi) credono ancora nel valore sostanziale di essa.

I ceti possidenti, legati alle lobby bancarie e alle logiche del libero mercato, hanno voluto colpire la democrazia in Italia (e negli altri paesi dell’eurozona) senza che l’opinione pubblica, nella sua stragrande maggioranza, sia stata effettivamente informata di cosa fosse effettivamente il pareggio in bilancio in Costituzione . Alla luce (molto sinteticamente) di quanto detto, sta aprendosi un dibattito ampio riguardo alla “decrescita”, cui si accompagnano due aggettivi peraltro non proprio condivisibili, felice e sostenibile, in quanto rischiano di connotarla come borghese e individualistica, quando invece il concetto di “decrescita” – almeno per noi – sottintende un orizzonte più ampio e classista nel vero senso del termine, cioè appartenente ai ceti popolari, più colpiti dalla crisi economica, soggetti costretti a mettere in pratica alcuni fondamentali suggerimenti della “decrescita” (per esempio, la filiera corta, o intessere rapporti più diretti con il mondo contadino contiguo, etc.) che vanno nella direzione della riscoperta dell’economia essenziale del mondo contadino e agro-pastorale.

Noi in questo contesto accenniamo soltanto ad alcuni passaggi della “decrescita”, per poi affrontarli ampiamente nel prossimo numero de La fonte.

C’è un testo che sta facendo il giro nei dibattiti e sui giornali richiama un numero eccezionale di interventi teorico-tematici ed è il cosiddetto Manifesto della decrescita. Questo testo,  per bloccare la spirale terribile del debito pubblico nei paesi industrializzati, suggerisce un percorso particolarmente significativo ed alternativo allo status quo nel quale si è incuneata la crisi economico-finanziaria attuale: bisognerebbe sospendere le grandi opere pubbliche (che nella grande maggioranza dei casi vengono deliberate in deficit); sarebbe necessario tagliare drasticamente le spese militari; sarebbe opportuna la riduzione immediata dei costi della politica. Come si vede, una tale tipologia di programma non può essere raffigurata metaforicamente dall’uso di un sintagma come quello di “felice e sostenibile”,  perché così esso rappresenterebbe una immagine edulcorata e fuorviante non solo del programma alternativo insito nel Manifesto ma anche delle stesse attese (messianiche?) che una parte della popolazione mondiale affida alle parole e ai concetti espressi nel Manifesto stesso.☺

bar.novelli@micso.net

 

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