L’11 aprile del 1963, giovedì santo, papa Giovanni promulgò la sua ultima enciclica, la Pacem in Terris. A cinquant’anni da quella data ne hanno fatto memoria i gruppi ecclesiali, le riviste e le associazioni che nello scorso settembre diedero vita a Roma ad un’assemblea nazionale per ricordare il concilio Vaticano II. All’evento fu dato il nome “Chiesa di tutti, chiesa dei poveri”, ricordando un’espressione di Giovanni XXIII. Lo scorso 6 aprile, quello stesso insieme di gruppi ecclesiali, hanno dato vita, sempre a Roma, ad una nuova assemblea nazionale, con il nome “Pacem in terris di Giovanni XXIII. L’enciclica della dignità umana”.
Prima di affrontarne i contenuti è bene soffermarsi sul sentimento che ci accomuna e per il quale riprendiamo in mano, dopo cinquant’anni, la Pacem in Terris; potrebbe essere anche il sentimento dei giovani che la prendessero ora in mano, per la prima volta. Questo sentimento è la meraviglia. La meraviglia nel fatto che l’enciclica ci ha detto qualcosa che mai avremmo pensato di sentir dire dalla Chiesa preconciliare, e, nell’aprile del 1963, la Chiesa era ancora la Chiesa preconciliare, il Concilio sarebbe esploso dopo. Questa meraviglia però vale anche rispetto alla Chiesa di oggi, che con l’ordinario militare e i cappellani fa ancora parte delle Forze Armate.
Sottolinea Raniero La Valle che l’enciclica avrebbe potuto piuttosto chiamarsi: “Mirari Nos”, ovvero, “Noi siamo meravigliati”, perché essa si poneva come un rovesciamento radicale e simmetrico di un’altra enciclica, vecchia di oltre un secolo, che si chiamava “Mirari Vos”, che voleva dire “voi non siete meravigliati”. Era l’enciclica del 15 aprile 1832 in cui Gregorio XVI rifiutava la modernità, poneva la religione come fondamento e sgabello del potere politico dei Regni, dei Principi e di ogni altra dominazione. L’enciclica in cui veniva condannato l’indifferentismo, accusato di rispettare tutte le religioni, bollate come “un delirio” la libertà religiosa e la libertà di coscienza, esecrata la libertà di stampa, esorcizzata “la mortifera peste dei libri” e messi al bando i sediziosi che “con infamissime trame” resistevano, ai Principi e si sforzavano di cacciarli dal trono. Non solo metteva sotto accusa i liberali infedeli, ma anche i cattolici liberali. Era dunque ragione di meraviglia che nel 1963 gli errori condannati dalla “Mirari Vos”, venissero riproposti nella Chiesa come valori umani e cristiani e addirittura come segni del tempo presaghi del regno di Dio. E questo rovesciamento non era proposto in qualche libro di teologia, ma era attuato e proclamato da un papa. Quel papa che all’inizio del suo pontificato si era presentato umilmente al mondo dicendo: “Sono Giuseppe, vostro fratello”. Identificandosi con Giuseppe venduto dai fratelli per l’Egitto, aveva voluto mettere la loro riconciliazione a simbolo del suo pontificato, inteso a costruire la pace. La Pacem in Terris era appunto il suggello che rappresentava questo simbolo.
Fissare lo guardo innanzitutto sull’autore, premettere la riflessione sull’annunciatore prima che sullo sviluppo dell’annuncio ci consente di aprire un’altra prospettiva rispetto a quelle già a lungo esaminate, non solo quella teologica e antropologica dell’enciclica, ma la dimensione ecclesiologica, perché nel papa che scrive quest’enciclica c’è in nuce una riforma della chiesa e una riforma del papato. Qui c’è l’arco che dalla Pacem in Terris e dal discorso sulla Chiesa dei poveri va al papa che oggi si presenta senza frange né filattèri. Il fuoco dell’enciclica può tornare ad ardere oggi, perché quella riforma del papato che papa Giovanni aveva avviato e dopo di lui sembrava essersi esaurita ecco ora, con papa Francesco, può riprendere.
Giovanni aveva sottoposto, come è consuetudine, la sua enciclica all’esame preventivo, però non del Sant’Uffizio, ma al vaglio del domenicano Luigi Ciappi, maestro dei sacri palazzi, e del gesuita George Jarlot, professore alla Gregoriana. Ambedue gli dissero che l’enciclica era bellissima, però era in contraddizione con tutto il magistero pontificio dell’800, e anche con quello di Pio XII. Il padre Ciappi ammonì che il riconoscimento a ogni essere umano del diritto alla libertà poteva essere interpretato come favorevole al liberalismo e indifferentismo in campo morale e religioso, e che pertanto doveva essere ristabilita “la continuità dottrinale del magistero ordinario dei Sommi pontefici. Anche riguardo alla parità della donna da considerarsi secondo l’enciclica “come persona, a parità di diritti e di doveri nei confronti dell’uomo”, padre Ciappi sosteneva che si dovesse opporre l’affermazione che la donna come sposa è “soggetta e dipendente dall’uomo”. Padre Jarlot, muoveva una contestazione ancora più radicale circa l’affermazione che la pace doveva fondarsi su quattro pilastri: la verità, la giustizia, la carità, la libertà. Questi quattro fondamenti della pace papa Giovanni li aveva messi sullo stesso piano, e tutte e quattro queste stelle polari “veritate, iustitia, caritate, libertate, magistris et ducibus” (maestre e guide), dovevano condurre gli uomini alla pace. Per la prima volta nel magistero la verità non era messa al di sopra, come condizione e limite alla libertà, ma era messa sullo stesso piano della libertà. Padre Jarlot scrisse al papa che solo la verità può essere una guida, da cui derivano la libertà, la giustizia e la carità; al contrario, diceva, la libertà è una guida incerta che non può essere messa in serie con le altre. Giovanni XXIII non raccolse l’obiezione, e il testo rimase così com’era.
Ecco allora la novità di papa Giovanni: l’autocritica del magistero, l’autoriforma del papato. Aveva cominciato a farlo rimettendo il magistero del romano pontefice nella tradizione, non intesa però come un sarcofago da trasmettere da una generazione all’altra, ma come una tradizione vivente e sensibile alla storia. Nel momento in cui dava un esempio di come quel magistero potesse riformarsi e arricchirsi, alludeva con i suoi gesti, così inconsueti per un papa di quel tempo, ad una riforma dello stesso papato, mentre al Concilio affidava la riforma di tutta la Chiesa. E il Concilio andava avanti sulla via aperta dall’enciclica giovannea: la libertà di coscienza con la Dignitatis Humanae, la pari dignità delle religioni con la Nostra Aetate, la rivalutazione umana della donna e dell’amore coniugale con la Gaudium et Spes, e così via; cose che comportavano non solo una riforma della Chiesa, ma un rinnovamento del kerigma, cioè dell’annuncio fondamentale della fede.☺
L’11 aprile del 1963, giovedì santo, papa Giovanni promulgò la sua ultima enciclica, la Pacem in Terris. A cinquant’anni da quella data ne hanno fatto memoria i gruppi ecclesiali, le riviste e le associazioni che nello scorso settembre diedero vita a Roma ad un’assemblea nazionale per ricordare il concilio Vaticano II. All’evento fu dato il nome “Chiesa di tutti, chiesa dei poveri”, ricordando un’espressione di Giovanni XXIII. Lo scorso 6 aprile, quello stesso insieme di gruppi ecclesiali, hanno dato vita, sempre a Roma, ad una nuova assemblea nazionale, con il nome “Pacem in terris di Giovanni XXIII. L’enciclica della dignità umana”.
Prima di affrontarne i contenuti è bene soffermarsi sul sentimento che ci accomuna e per il quale riprendiamo in mano, dopo cinquant’anni, la Pacem in Terris; potrebbe essere anche il sentimento dei giovani che la prendessero ora in mano, per la prima volta. Questo sentimento è la meraviglia. La meraviglia nel fatto che l’enciclica ci ha detto qualcosa che mai avremmo pensato di sentir dire dalla Chiesa preconciliare, e, nell’aprile del 1963, la Chiesa era ancora la Chiesa preconciliare, il Concilio sarebbe esploso dopo. Questa meraviglia però vale anche rispetto alla Chiesa di oggi, che con l’ordinario militare e i cappellani fa ancora parte delle Forze Armate.
Sottolinea Raniero La Valle che l’enciclica avrebbe potuto piuttosto chiamarsi: “Mirari Nos”, ovvero, “Noi siamo meravigliati”, perché essa si poneva come un rovesciamento radicale e simmetrico di un’altra enciclica, vecchia di oltre un secolo, che si chiamava “Mirari Vos”, che voleva dire “voi non siete meravigliati”. Era l’enciclica del 15 aprile 1832 in cui Gregorio XVI rifiutava la modernità, poneva la religione come fondamento e sgabello del potere politico dei Regni, dei Principi e di ogni altra dominazione. L’enciclica in cui veniva condannato l’indifferentismo, accusato di rispettare tutte le religioni, bollate come “un delirio” la libertà religiosa e la libertà di coscienza, esecrata la libertà di stampa, esorcizzata “la mortifera peste dei libri” e messi al bando i sediziosi che “con infamissime trame” resistevano, ai Principi e si sforzavano di cacciarli dal trono. Non solo metteva sotto accusa i liberali infedeli, ma anche i cattolici liberali. Era dunque ragione di meraviglia che nel 1963 gli errori condannati dalla “Mirari Vos”, venissero riproposti nella Chiesa come valori umani e cristiani e addirittura come segni del tempo presaghi del regno di Dio. E questo rovesciamento non era proposto in qualche libro di teologia, ma era attuato e proclamato da un papa. Quel papa che all’inizio del suo pontificato si era presentato umilmente al mondo dicendo: “Sono Giuseppe, vostro fratello”. Identificandosi con Giuseppe venduto dai fratelli per l’Egitto, aveva voluto mettere la loro riconciliazione a simbolo del suo pontificato, inteso a costruire la pace. La Pacem in Terris era appunto il suggello che rappresentava questo simbolo.
Fissare lo guardo innanzitutto sull’autore, premettere la riflessione sull’annunciatore prima che sullo sviluppo dell’annuncio ci consente di aprire un’altra prospettiva rispetto a quelle già a lungo esaminate, non solo quella teologica e antropologica dell’enciclica, ma la dimensione ecclesiologica, perché nel papa che scrive quest’enciclica c’è in nuce una riforma della chiesa e una riforma del papato. Qui c’è l’arco che dalla Pacem in Terris e dal discorso sulla Chiesa dei poveri va al papa che oggi si presenta senza frange né filattèri. Il fuoco dell’enciclica può tornare ad ardere oggi, perché quella riforma del papato che papa Giovanni aveva avviato e dopo di lui sembrava essersi esaurita ecco ora, con papa Francesco, può riprendere.
Giovanni aveva sottoposto, come è consuetudine, la sua enciclica all’esame preventivo, però non del Sant’Uffizio, ma al vaglio del domenicano Luigi Ciappi, maestro dei sacri palazzi, e del gesuita George Jarlot, professore alla Gregoriana. Ambedue gli dissero che l’enciclica era bellissima, però era in contraddizione con tutto il magistero pontificio dell’800, e anche con quello di Pio XII. Il padre Ciappi ammonì che il riconoscimento a ogni essere umano del diritto alla libertà poteva essere interpretato come favorevole al liberalismo e indifferentismo in campo morale e religioso, e che pertanto doveva essere ristabilita “la continuità dottrinale del magistero ordinario dei Sommi pontefici. Anche riguardo alla parità della donna da considerarsi secondo l’enciclica “come persona, a parità di diritti e di doveri nei confronti dell’uomo”, padre Ciappi sosteneva che si dovesse opporre l’affermazione che la donna come sposa è “soggetta e dipendente dall’uomo”. Padre Jarlot, muoveva una contestazione ancora più radicale circa l’affermazione che la pace doveva fondarsi su quattro pilastri: la verità, la giustizia, la carità, la libertà. Questi quattro fondamenti della pace papa Giovanni li aveva messi sullo stesso piano, e tutte e quattro queste stelle polari “veritate, iustitia, caritate, libertate, magistris et ducibus” (maestre e guide), dovevano condurre gli uomini alla pace. Per la prima volta nel magistero la verità non era messa al di sopra, come condizione e limite alla libertà, ma era messa sullo stesso piano della libertà. Padre Jarlot scrisse al papa che solo la verità può essere una guida, da cui derivano la libertà, la giustizia e la carità; al contrario, diceva, la libertà è una guida incerta che non può essere messa in serie con le altre. Giovanni XXIII non raccolse l’obiezione, e il testo rimase così com’era.
Ecco allora la novità di papa Giovanni: l’autocritica del magistero, l’autoriforma del papato. Aveva cominciato a farlo rimettendo il magistero del romano pontefice nella tradizione, non intesa però come un sarcofago da trasmettere da una generazione all’altra, ma come una tradizione vivente e sensibile alla storia. Nel momento in cui dava un esempio di come quel magistero potesse riformarsi e arricchirsi, alludeva con i suoi gesti, così inconsueti per un papa di quel tempo, ad una riforma dello stesso papato, mentre al Concilio affidava la riforma di tutta la Chiesa. E il Concilio andava avanti sulla via aperta dall’enciclica giovannea: la libertà di coscienza con la Dignitatis Humanae, la pari dignità delle religioni con la Nostra Aetate, la rivalutazione umana della donna e dell’amore coniugale con la Gaudium et Spes, e così via; cose che comportavano non solo una riforma della Chiesa, ma un rinnovamento del kerigma, cioè dell’annuncio fondamentale della fede.☺
L’11 aprile del 1963, giovedì santo, papa Giovanni promulgò la sua ultima enciclica, la Pacem in Terris. A cinquant’anni da quella data ne hanno fatto memoria i gruppi ecclesiali, le riviste e le associazioni che nello scorso settembre diedero vita a Roma ad un’assemblea nazionale per ricordare il concilio Vaticano II. All’evento fu dato il nome “Chiesa di tutti, chiesa dei poveri”, ricordando un’espressione di Giovanni XXIII. Lo scorso 6 aprile, quello stesso insieme di gruppi ecclesiali, hanno dato vita, sempre a Roma, ad una nuova assemblea nazionale, con il nome “Pacem in terris di Giovanni XXIII. L’enciclica della dignità umana”.
Prima di affrontarne i contenuti è bene soffermarsi sul sentimento che ci accomuna e per il quale riprendiamo in mano, dopo cinquant’anni, la Pacem in Terris; potrebbe essere anche il sentimento dei giovani che la prendessero ora in mano, per la prima volta. Questo sentimento è la meraviglia. La meraviglia nel fatto che l’enciclica ci ha detto qualcosa che mai avremmo pensato di sentir dire dalla Chiesa preconciliare, e, nell’aprile del 1963, la Chiesa era ancora la Chiesa preconciliare, il Concilio sarebbe esploso dopo. Questa meraviglia però vale anche rispetto alla Chiesa di oggi, che con l’ordinario militare e i cappellani fa ancora parte delle Forze Armate.
Sottolinea Raniero La Valle che l’enciclica avrebbe potuto piuttosto chiamarsi: “Mirari Nos”, ovvero, “Noi siamo meravigliati”, perché essa si poneva come un rovesciamento radicale e simmetrico di un’altra enciclica, vecchia di oltre un secolo, che si chiamava “Mirari Vos”, che voleva dire “voi non siete meravigliati”. Era l’enciclica del 15 aprile 1832 in cui Gregorio XVI rifiutava la modernità, poneva la religione come fondamento e sgabello del potere politico dei Regni, dei Principi e di ogni altra dominazione. L’enciclica in cui veniva condannato l’indifferentismo, accusato di rispettare tutte le religioni, bollate come “un delirio” la libertà religiosa e la libertà di coscienza, esecrata la libertà di stampa, esorcizzata “la mortifera peste dei libri” e messi al bando i sediziosi che “con infamissime trame” resistevano, ai Principi e si sforzavano di cacciarli dal trono. Non solo metteva sotto accusa i liberali infedeli, ma anche i cattolici liberali. Era dunque ragione di meraviglia che nel 1963 gli errori condannati dalla “Mirari Vos”, venissero riproposti nella Chiesa come valori umani e cristiani e addirittura come segni del tempo presaghi del regno di Dio. E questo rovesciamento non era proposto in qualche libro di teologia, ma era attuato e proclamato da un papa. Quel papa che all’inizio del suo pontificato si era presentato umilmente al mondo dicendo: “Sono Giuseppe, vostro fratello”. Identificandosi con Giuseppe venduto dai fratelli per l’Egitto, aveva voluto mettere la loro riconciliazione a simbolo del suo pontificato, inteso a costruire la pace. La Pacem in Terris era appunto il suggello che rappresentava questo simbolo.
Fissare lo guardo innanzitutto sull’autore, premettere la riflessione sull’annunciatore prima che sullo sviluppo dell’annuncio ci consente di aprire un’altra prospettiva rispetto a quelle già a lungo esaminate, non solo quella teologica e antropologica dell’enciclica, ma la dimensione ecclesiologica, perché nel papa che scrive quest’enciclica c’è in nuce una riforma della chiesa e una riforma del papato. Qui c’è l’arco che dalla Pacem in Terris e dal discorso sulla Chiesa dei poveri va al papa che oggi si presenta senza frange né filattèri. Il fuoco dell’enciclica può tornare ad ardere oggi, perché quella riforma del papato che papa Giovanni aveva avviato e dopo di lui sembrava essersi esaurita ecco ora, con papa Francesco, può riprendere.
Giovanni aveva sottoposto, come è consuetudine, la sua enciclica all’esame preventivo, però non del Sant’Uffizio, ma al vaglio del domenicano Luigi Ciappi, maestro dei sacri palazzi, e del gesuita George Jarlot, professore alla Gregoriana. Ambedue gli dissero che l’enciclica era bellissima, però era in contraddizione con tutto il magistero pontificio dell’800, e anche con quello di Pio XII. Il padre Ciappi ammonì che il riconoscimento a ogni essere umano del diritto alla libertà poteva essere interpretato come favorevole al liberalismo e indifferentismo in campo morale e religioso, e che pertanto doveva essere ristabilita “la continuità dottrinale del magistero ordinario dei Sommi pontefici. Anche riguardo alla parità della donna da considerarsi secondo l’enciclica “come persona, a parità di diritti e di doveri nei confronti dell’uomo”, padre Ciappi sosteneva che si dovesse opporre l’affermazione che la donna come sposa è “soggetta e dipendente dall’uomo”. Padre Jarlot, muoveva una contestazione ancora più radicale circa l’affermazione che la pace doveva fondarsi su quattro pilastri: la verità, la giustizia, la carità, la libertà. Questi quattro fondamenti della pace papa Giovanni li aveva messi sullo stesso piano, e tutte e quattro queste stelle polari “veritate, iustitia, caritate, libertate, magistris et ducibus” (maestre e guide), dovevano condurre gli uomini alla pace. Per la prima volta nel magistero la verità non era messa al di sopra, come condizione e limite alla libertà, ma era messa sullo stesso piano della libertà. Padre Jarlot scrisse al papa che solo la verità può essere una guida, da cui derivano la libertà, la giustizia e la carità; al contrario, diceva, la libertà è una guida incerta che non può essere messa in serie con le altre. Giovanni XXIII non raccolse l’obiezione, e il testo rimase così com’era.
Ecco allora la novità di papa Giovanni: l’autocritica del magistero, l’autoriforma del papato. Aveva cominciato a farlo rimettendo il magistero del romano pontefice nella tradizione, non intesa però come un sarcofago da trasmettere da una generazione all’altra, ma come una tradizione vivente e sensibile alla storia. Nel momento in cui dava un esempio di come quel magistero potesse riformarsi e arricchirsi, alludeva con i suoi gesti, così inconsueti per un papa di quel tempo, ad una riforma dello stesso papato, mentre al Concilio affidava la riforma di tutta la Chiesa. E il Concilio andava avanti sulla via aperta dall’enciclica giovannea: la libertà di coscienza con la Dignitatis Humanae, la pari dignità delle religioni con la Nostra Aetate, la rivalutazione umana della donna e dell’amore coniugale con la Gaudium et Spes, e così via; cose che comportavano non solo una riforma della Chiesa, ma un rinnovamento del kerigma, cioè dell’annuncio fondamentale della fede.☺
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