“Lo declaro persona no grata”. Con queste parole il presidente boliviano Evo Morales ha espulso il 12 settembre scorso l'ambasciatore statunitense a La Paz Philip Goldberg, ritenendolo responsabile di una presunta ingerenza nella politica nazionale. In un discorso pubblico, Evo Morales lo ha accusato di cospirare contro la democrazia e di cercare la divisione della Bolivia. “Questo signore è un esperto nell'animare conflitti separatisti. Negli anni tra il 1994 e il 1996 fu a capo d’ufficio del Dipartimento di Stato per la Bosnia durante la guerra separatista dei Balcani e dopo tra il 2004 e 2006 ritornò capo di missione in Pristina, Kosovo, e lì consolidò la separazione o indipendenza di questa regione lasciando migliaia di morti”.
L'espulsione dell'ambasciatore Philip Goldberg avrà certamente delle ripercussioni nel continente latinoamericano, oltre che nei rapporti bilaterali tra i due paesi. Washington ha annunciato la decisione di espellere gli ambasciatori della Bolivia e del Venezuela, dopo che anche il presidente Hugo Chavez ha invitato il rappresentante diplomatico statunitense a Caracas di lasciare il paese nel giro di 72 ore. Per il Dipartimento di Stato USA tali decisioni riflettevano la debolezza di questi leaders nell'affrontare le rispettive sfide interne. La crisi boliviana, latente da tempo, si è acutizzata con gli scontri tra i contadini – leali al presidente Morales – e i gruppi autonomi. L' epicentro della protesta è stato il nord del paese, la provincia di Pando, teatro di un sanguinoso scontro nella località di Porvenir, nelle vicinanze della capitale Cobija. Le cifre parlano di almeno 16 morti, centinaia di feriti e numerosi dispersi. Per il governo si è trattato di un vero e proprio massacro, compiuto da sicari stranieri assoldati per assassinare i contadini e gli indigeni favorevoli al processo di cambio in corso nel paese. Il detonatore che ha innescato il conflitto è stato aver istituito la “Renta Dignidad”, ossia la concessione di una pensione sociale annuale a tutti i boliviani maggiori di 60 anni senza alcun reddito. Rendita finanziata con le entrate provenienti dagli idrocarburi, una percentuale del 30% sul petrolio e sul gas che rimaneva nelle mani delle province produttrici. Questa è l'origine della protesta. C'è anche altro. In primo luogo, il rifiuto delle province ribelli della cosiddetta Mezza Luna – la zona boliviana dove si concentra la maggiore consistenza delle riserve di gas del paese, comprendente le circoscrizioni di Pando, Beni, Santa Cruz, Tarija e Chuquisaca – di accettare la nuova Costituzione. In secondo luogo, le rivendicazioni di autogoverno dei cinque prefetti (governatori) e la creazione di stati autonomi e indipendenti. Il separatismo diventa così il fattore destabilizzante per il paese in un delicato momento.
Il 7 ottobre Evo Morales ha indetto un referendum per la ratifica della nuova Carta Costituzionale, d'ispirazione comunitaria e indigena, approvata dall'Assemblea Costituente lo scorso dicembre. Tra i suoi dettami si proibisce l'installazione di basi militari straniere sul territorio, si sancisce la nazionalizzazione degli idrocarburi e l’indivisibile e imprescindibile proprietà delle risorse naturali del popolo boliviano. La loro alienazione a favore di potenze o imprese straniere è considerato un tradimento. Il progetto di riforma costituzionale è osteggiato dalle province ribelli della “Mezza Luna” che chiedono l'indipendenza economica e legislativa, nonché la gestione delle risorse locali. Due visioni differenti di paese, due modi diversi di concepire la proprietà dei beni. Lotta per l'autonomia, opposizione alle riforme costituzionali, gestione degli idrocarburi, separatismo su base etnica. Questo caratterizza l'attuale conflitto. La minaccia di una possibile guerra civile è reale. La crisi boliviana rappresenta lo specchio di un intero continente, dove lo scontro tra governi e autonomie locali, o quello inevitabile tra ricchi e poveri, fa da cornice alla generale ingerenza di stati che, avendo costruito il proprio sistema capitalistico sulle risorse energetiche di altri, interferiscono nelle sovranità. Le risorse di tanti gestite da pochi. Per il presidente Evo Morales, l'opposizione è mobilizzata contro il suo governo a difesa del neoliberalismo, dottrina che permette di mantenere inalterati i privilegi. Il recente conflitto – sostiene – non è dovuto alla rendita o all’autonomia ma al tentativo cospirativo di dividere il paese. Da qui il coraggioso atto di espellere l'ambasciatore statunitense, con tutte le possibili conseguenze.
Per alcuni Evo Morales non è gradito e rappresenta un pericolo per il paese. Per altri, la maggioranza della popolazione aymara e quechua, incarna il seme della rivendicazione indigena. Nato povero in una famiglia di minatori della etnia aymara, nell'altopiano boliviano di Oruro, dovette emigrare nel Chapare a causa della crisi mineraria degli anni '70-'80. Spinto dal richiamo delle foglie di coca, come tanti in quegli anni, si convertì in un contadino dedito alla loro coltivazione. Lottò nelle piantagioni per i diritti dei produttori e contro gli abusi dei potenti diventando così il leader cocalero per antonomasia. Un “povero tra i poveri” che è diventato il primo presidente indigeno della storia latinoamericana. Come tale ha difeso la dignità del suo paese davanti al suo popolo.☺
pinobruno@yahoo.it
“Lo declaro persona no grata”. Con queste parole il presidente boliviano Evo Morales ha espulso il 12 settembre scorso l'ambasciatore statunitense a La Paz Philip Goldberg, ritenendolo responsabile di una presunta ingerenza nella politica nazionale. In un discorso pubblico, Evo Morales lo ha accusato di cospirare contro la democrazia e di cercare la divisione della Bolivia. “Questo signore è un esperto nell'animare conflitti separatisti. Negli anni tra il 1994 e il 1996 fu a capo d’ufficio del Dipartimento di Stato per la Bosnia durante la guerra separatista dei Balcani e dopo tra il 2004 e 2006 ritornò capo di missione in Pristina, Kosovo, e lì consolidò la separazione o indipendenza di questa regione lasciando migliaia di morti”.
L'espulsione dell'ambasciatore Philip Goldberg avrà certamente delle ripercussioni nel continente latinoamericano, oltre che nei rapporti bilaterali tra i due paesi. Washington ha annunciato la decisione di espellere gli ambasciatori della Bolivia e del Venezuela, dopo che anche il presidente Hugo Chavez ha invitato il rappresentante diplomatico statunitense a Caracas di lasciare il paese nel giro di 72 ore. Per il Dipartimento di Stato USA tali decisioni riflettevano la debolezza di questi leaders nell'affrontare le rispettive sfide interne. La crisi boliviana, latente da tempo, si è acutizzata con gli scontri tra i contadini – leali al presidente Morales – e i gruppi autonomi. L' epicentro della protesta è stato il nord del paese, la provincia di Pando, teatro di un sanguinoso scontro nella località di Porvenir, nelle vicinanze della capitale Cobija. Le cifre parlano di almeno 16 morti, centinaia di feriti e numerosi dispersi. Per il governo si è trattato di un vero e proprio massacro, compiuto da sicari stranieri assoldati per assassinare i contadini e gli indigeni favorevoli al processo di cambio in corso nel paese. Il detonatore che ha innescato il conflitto è stato aver istituito la “Renta Dignidad”, ossia la concessione di una pensione sociale annuale a tutti i boliviani maggiori di 60 anni senza alcun reddito. Rendita finanziata con le entrate provenienti dagli idrocarburi, una percentuale del 30% sul petrolio e sul gas che rimaneva nelle mani delle province produttrici. Questa è l'origine della protesta. C'è anche altro. In primo luogo, il rifiuto delle province ribelli della cosiddetta Mezza Luna – la zona boliviana dove si concentra la maggiore consistenza delle riserve di gas del paese, comprendente le circoscrizioni di Pando, Beni, Santa Cruz, Tarija e Chuquisaca – di accettare la nuova Costituzione. In secondo luogo, le rivendicazioni di autogoverno dei cinque prefetti (governatori) e la creazione di stati autonomi e indipendenti. Il separatismo diventa così il fattore destabilizzante per il paese in un delicato momento.
Il 7 ottobre Evo Morales ha indetto un referendum per la ratifica della nuova Carta Costituzionale, d'ispirazione comunitaria e indigena, approvata dall'Assemblea Costituente lo scorso dicembre. Tra i suoi dettami si proibisce l'installazione di basi militari straniere sul territorio, si sancisce la nazionalizzazione degli idrocarburi e l’indivisibile e imprescindibile proprietà delle risorse naturali del popolo boliviano. La loro alienazione a favore di potenze o imprese straniere è considerato un tradimento. Il progetto di riforma costituzionale è osteggiato dalle province ribelli della “Mezza Luna” che chiedono l'indipendenza economica e legislativa, nonché la gestione delle risorse locali. Due visioni differenti di paese, due modi diversi di concepire la proprietà dei beni. Lotta per l'autonomia, opposizione alle riforme costituzionali, gestione degli idrocarburi, separatismo su base etnica. Questo caratterizza l'attuale conflitto. La minaccia di una possibile guerra civile è reale. La crisi boliviana rappresenta lo specchio di un intero continente, dove lo scontro tra governi e autonomie locali, o quello inevitabile tra ricchi e poveri, fa da cornice alla generale ingerenza di stati che, avendo costruito il proprio sistema capitalistico sulle risorse energetiche di altri, interferiscono nelle sovranità. Le risorse di tanti gestite da pochi. Per il presidente Evo Morales, l'opposizione è mobilizzata contro il suo governo a difesa del neoliberalismo, dottrina che permette di mantenere inalterati i privilegi. Il recente conflitto – sostiene – non è dovuto alla rendita o all’autonomia ma al tentativo cospirativo di dividere il paese. Da qui il coraggioso atto di espellere l'ambasciatore statunitense, con tutte le possibili conseguenze.
Per alcuni Evo Morales non è gradito e rappresenta un pericolo per il paese. Per altri, la maggioranza della popolazione aymara e quechua, incarna il seme della rivendicazione indigena. Nato povero in una famiglia di minatori della etnia aymara, nell'altopiano boliviano di Oruro, dovette emigrare nel Chapare a causa della crisi mineraria degli anni '70-'80. Spinto dal richiamo delle foglie di coca, come tanti in quegli anni, si convertì in un contadino dedito alla loro coltivazione. Lottò nelle piantagioni per i diritti dei produttori e contro gli abusi dei potenti diventando così il leader cocalero per antonomasia. Un “povero tra i poveri” che è diventato il primo presidente indigeno della storia latinoamericana. Come tale ha difeso la dignità del suo paese davanti al suo popolo.☺
“Lo declaro persona no grata”. Con queste parole il presidente boliviano Evo Morales ha espulso il 12 settembre scorso l'ambasciatore statunitense a La Paz Philip Goldberg, ritenendolo responsabile di una presunta ingerenza nella politica nazionale. In un discorso pubblico, Evo Morales lo ha accusato di cospirare contro la democrazia e di cercare la divisione della Bolivia. “Questo signore è un esperto nell'animare conflitti separatisti. Negli anni tra il 1994 e il 1996 fu a capo d’ufficio del Dipartimento di Stato per la Bosnia durante la guerra separatista dei Balcani e dopo tra il 2004 e 2006 ritornò capo di missione in Pristina, Kosovo, e lì consolidò la separazione o indipendenza di questa regione lasciando migliaia di morti”.
L'espulsione dell'ambasciatore Philip Goldberg avrà certamente delle ripercussioni nel continente latinoamericano, oltre che nei rapporti bilaterali tra i due paesi. Washington ha annunciato la decisione di espellere gli ambasciatori della Bolivia e del Venezuela, dopo che anche il presidente Hugo Chavez ha invitato il rappresentante diplomatico statunitense a Caracas di lasciare il paese nel giro di 72 ore. Per il Dipartimento di Stato USA tali decisioni riflettevano la debolezza di questi leaders nell'affrontare le rispettive sfide interne. La crisi boliviana, latente da tempo, si è acutizzata con gli scontri tra i contadini – leali al presidente Morales – e i gruppi autonomi. L' epicentro della protesta è stato il nord del paese, la provincia di Pando, teatro di un sanguinoso scontro nella località di Porvenir, nelle vicinanze della capitale Cobija. Le cifre parlano di almeno 16 morti, centinaia di feriti e numerosi dispersi. Per il governo si è trattato di un vero e proprio massacro, compiuto da sicari stranieri assoldati per assassinare i contadini e gli indigeni favorevoli al processo di cambio in corso nel paese. Il detonatore che ha innescato il conflitto è stato aver istituito la “Renta Dignidad”, ossia la concessione di una pensione sociale annuale a tutti i boliviani maggiori di 60 anni senza alcun reddito. Rendita finanziata con le entrate provenienti dagli idrocarburi, una percentuale del 30% sul petrolio e sul gas che rimaneva nelle mani delle province produttrici. Questa è l'origine della protesta. C'è anche altro. In primo luogo, il rifiuto delle province ribelli della cosiddetta Mezza Luna – la zona boliviana dove si concentra la maggiore consistenza delle riserve di gas del paese, comprendente le circoscrizioni di Pando, Beni, Santa Cruz, Tarija e Chuquisaca – di accettare la nuova Costituzione. In secondo luogo, le rivendicazioni di autogoverno dei cinque prefetti (governatori) e la creazione di stati autonomi e indipendenti. Il separatismo diventa così il fattore destabilizzante per il paese in un delicato momento.
Il 7 ottobre Evo Morales ha indetto un referendum per la ratifica della nuova Carta Costituzionale, d'ispirazione comunitaria e indigena, approvata dall'Assemblea Costituente lo scorso dicembre. Tra i suoi dettami si proibisce l'installazione di basi militari straniere sul territorio, si sancisce la nazionalizzazione degli idrocarburi e l’indivisibile e imprescindibile proprietà delle risorse naturali del popolo boliviano. La loro alienazione a favore di potenze o imprese straniere è considerato un tradimento. Il progetto di riforma costituzionale è osteggiato dalle province ribelli della “Mezza Luna” che chiedono l'indipendenza economica e legislativa, nonché la gestione delle risorse locali. Due visioni differenti di paese, due modi diversi di concepire la proprietà dei beni. Lotta per l'autonomia, opposizione alle riforme costituzionali, gestione degli idrocarburi, separatismo su base etnica. Questo caratterizza l'attuale conflitto. La minaccia di una possibile guerra civile è reale. La crisi boliviana rappresenta lo specchio di un intero continente, dove lo scontro tra governi e autonomie locali, o quello inevitabile tra ricchi e poveri, fa da cornice alla generale ingerenza di stati che, avendo costruito il proprio sistema capitalistico sulle risorse energetiche di altri, interferiscono nelle sovranità. Le risorse di tanti gestite da pochi. Per il presidente Evo Morales, l'opposizione è mobilizzata contro il suo governo a difesa del neoliberalismo, dottrina che permette di mantenere inalterati i privilegi. Il recente conflitto – sostiene – non è dovuto alla rendita o all’autonomia ma al tentativo cospirativo di dividere il paese. Da qui il coraggioso atto di espellere l'ambasciatore statunitense, con tutte le possibili conseguenze.
Per alcuni Evo Morales non è gradito e rappresenta un pericolo per il paese. Per altri, la maggioranza della popolazione aymara e quechua, incarna il seme della rivendicazione indigena. Nato povero in una famiglia di minatori della etnia aymara, nell'altopiano boliviano di Oruro, dovette emigrare nel Chapare a causa della crisi mineraria degli anni '70-'80. Spinto dal richiamo delle foglie di coca, come tanti in quegli anni, si convertì in un contadino dedito alla loro coltivazione. Lottò nelle piantagioni per i diritti dei produttori e contro gli abusi dei potenti diventando così il leader cocalero per antonomasia. Un “povero tra i poveri” che è diventato il primo presidente indigeno della storia latinoamericana. Come tale ha difeso la dignità del suo paese davanti al suo popolo.☺
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