
Poesie da uno sciopero
Ogni tanto succede di leggere libri di poesia di una tenuta impressionante per chiarezza, sicurezza di gesto, incisività. Uno sciopero dei mezzi di trasporto urbano ha fatto sì che accompagnassi un amico a una visita medica, e, durante l’attesa in macchina, mi mettessi a leggere un librino uscito in questi mesi: L’ora della verità, di Simone Zafferani, Macerata, Pequod, 2023. Non conosco l’autore, se non per un’amicizia virtuale di recente data. Leggo nel risvolto di copertina che è nato a Terni nel 1972, vive a Roma e ha già pubblicato alcuni altri libri, vincitori di diversi premi. Già la prima lirica, sullo scrivere poesie, mi è sembrata un piccolo capolavoro:
Se il primo verso è un dono
il lavoro è finire, arrivare alla resa
restando sospesi nella giusta penombra
mentre la verità setaccia i versi,
i versi rastremano le parole,
le parole trovano una loro musica
e la musica prova a non cadere.
Poi – e ricordo solo alcune delle molte bellezze – la stupenda serie dei ‘mestieri’ ritratti nella sezione Vite perpendicolari. Appena ho letto la poesia sull’insegnante (e la riporto qui sotto, da p. 40: l’ultimo verso riadatta un celebre incipit di Eugenio Montale) ho deciso che l’avrei partecipata ai molti colleghi e allievi che figurano fra i miei amici in facebook e no. Ma lo stesso è avvenuto poi per psicologi, per attrici e attori, cantanti, artisti figurativi (pp. 43, 46, 49, 50). E in questo splendido librino si trova poi molto altro, come la cura del modesto giardiniere che si dedica con passione a una spelacchiata aiuola contigua alla Stazione Termini (p. 87), o varie poesie d’amore, fra le quali un testo registra una coppia che medita sul problema di se e quando la storia terminerà, concludendo che «sul finire si può sostare all’infinito» (p. 99). Un piccolo libro veramente molto notevole, che raccomando a tutti gli autentici amanti della poesia.
Anche stasera finirò tardi di correggere i temi
cercando tra le righe i segni dei caratteri,
i guizzi straripanti dell’età, l’intelligenza e la scaltrezza
e in certi angoli più nascosti una mitezza nel dire
ciò che in altra forma non sanno confessare.
Quando li ho davanti non si fanno leggere.
La posa, il bisogno di sembrare,
il voler appartenere li coalizza in masse informi
oppure li chiude in gusci di dolorosa bellezza.
La smania dell’aderenza a sé o agli altri li disorienta
e a me che osservo e che dovrei guidarli dà un’ebbrezza
vaga e trasognata come una stagione incerta.
Spesso mi innamoro di ciò che intuisco,
a volte maledico la piega già presa
e mi interrogo su cosa fare
sempre in bilico, io, tra demiurgo e maieuta.
Li vedo andare verso la vita, ne perdo le tracce,
i nuovi si sovrappongono ai vecchi
e resto solo, fisso a un’adolescenza senza scampo.
Non recidere forbice quei volti.