Ci vai e ci ritorni perché ti senti accolto, quasi di casa in quell’ambiente che è tuo, tra quei personaggi che conosci e che ti coinvolgono al punto che non sai più se sei attore o spettatore. Stradine strette, tortuose, presenze, oggetti, sapori, odori… quasi brandelli di memoria che sanno di un passato remoto, ancestrale. Figure più o meno in luce o appena intraviste, stemperate in un chiarore fioco e antico che le rende irreali, ma che reali sono con il loro carico di fatica, di sofferenza, di stupore, di speranza e alla fine del buio cammino, come l’emblema di una proiezione metaforica – dalle tenebre alla luce, dal peccato alla redenzione – la Capanna, una povera stanza con gli umili utensili di ogni giorno, un Giuseppe con il viso e le mani da operaio, una Maria di null’altro adorna che della sua naturale bellezza di donna, un Bambinello senza riccioli e senza aureola che piange, forse per freddo, forse per fame, ninnato non da un coro di angioletti osannanti, ma dal tin tin del martello del fabbro.
Un presepe senza enfasi e senza retorica, che pur riproponendo l’incantesimo di un sogno da sempre sognato, indossa tutta la tragedia della nostra umanità con le croci che pendono da ogni scena (e che dovrebbero pendere sulle nostre scelte), con i cartelli le cui scritte “rompono le paci” perché ricordano la povertà, il consumismo, le illecite ricchezze…
Se hai raccolto la provocazione, finito il percorso, te ne esci non con l’amarezza di una festa guastata ma con il bisogno di cercare comunione, con l’esigenza della “porta aperta” che permetta di realizzare quello stile di incarnazione che rende possibile la condivisione, il “farsi prossimo”, comunità, Chiesa.
È una delle edizioni del Presepe Vivente a Bonefro, quando gli eventi non avevano ancora dolorosamente rivoluzionato paese e anime e vi era una partecipazione più affettuosa e corale alla vita e alle tradizioni locali. ☺
Ci vai e ci ritorni perché ti senti accolto, quasi di casa in quell’ambiente che è tuo, tra quei personaggi che conosci e che ti coinvolgono al punto che non sai più se sei attore o spettatore. Stradine strette, tortuose, presenze, oggetti, sapori, odori… quasi brandelli di memoria che sanno di un passato remoto, ancestrale. Figure più o meno in luce o appena intraviste, stemperate in un chiarore fioco e antico che le rende irreali, ma che reali sono con il loro carico di fatica, di sofferenza, di stupore, di speranza e alla fine del buio cammino, come l’emblema di una proiezione metaforica – dalle tenebre alla luce, dal peccato alla redenzione – la Capanna, una povera stanza con gli umili utensili di ogni giorno, un Giuseppe con il viso e le mani da operaio, una Maria di null’altro adorna che della sua naturale bellezza di donna, un Bambinello senza riccioli e senza aureola che piange, forse per freddo, forse per fame, ninnato non da un coro di angioletti osannanti, ma dal tin tin del martello del fabbro.
Un presepe senza enfasi e senza retorica, che pur riproponendo l’incantesimo di un sogno da sempre sognato, indossa tutta la tragedia della nostra umanità con le croci che pendono da ogni scena (e che dovrebbero pendere sulle nostre scelte), con i cartelli le cui scritte “rompono le paci” perché ricordano la povertà, il consumismo, le illecite ricchezze…
Se hai raccolto la provocazione, finito il percorso, te ne esci non con l’amarezza di una festa guastata ma con il bisogno di cercare comunione, con l’esigenza della “porta aperta” che permetta di realizzare quello stile di incarnazione che rende possibile la condivisione, il “farsi prossimo”, comunità, Chiesa.
È una delle edizioni del Presepe Vivente a Bonefro, quando gli eventi non avevano ancora dolorosamente rivoluzionato paese e anime e vi era una partecipazione più affettuosa e corale alla vita e alle tradizioni locali. ☺
Ci vai e ci ritorni perché ti senti accolto, quasi di casa in quell’ambiente che è tuo, tra quei personaggi che conosci e che ti coinvolgono al punto che non sai più se sei attore o spettatore. Stradine strette, tortuose, presenze, oggetti, sapori, odori… quasi brandelli di memoria che sanno di un passato remoto, ancestrale. Figure più o meno in luce o appena intraviste, stemperate in un chiarore fioco e antico che le rende irreali, ma che reali sono con il loro carico di fatica, di sofferenza, di stupore, di speranza e alla fine del buio cammino, come l’emblema di una proiezione metaforica – dalle tenebre alla luce, dal peccato alla redenzione – la Capanna, una povera stanza con gli umili utensili di ogni giorno, un Giuseppe con il viso e le mani da operaio, una Maria di null’altro adorna che della sua naturale bellezza di donna, un Bambinello senza riccioli e senza aureola che piange, forse per freddo, forse per fame, ninnato non da un coro di angioletti osannanti, ma dal tin tin del martello del fabbro.
Un presepe senza enfasi e senza retorica, che pur riproponendo l’incantesimo di un sogno da sempre sognato, indossa tutta la tragedia della nostra umanità con le croci che pendono da ogni scena (e che dovrebbero pendere sulle nostre scelte), con i cartelli le cui scritte “rompono le paci” perché ricordano la povertà, il consumismo, le illecite ricchezze…
Se hai raccolto la provocazione, finito il percorso, te ne esci non con l’amarezza di una festa guastata ma con il bisogno di cercare comunione, con l’esigenza della “porta aperta” che permetta di realizzare quello stile di incarnazione che rende possibile la condivisione, il “farsi prossimo”, comunità, Chiesa.
È una delle edizioni del Presepe Vivente a Bonefro, quando gli eventi non avevano ancora dolorosamente rivoluzionato paese e anime e vi era una partecipazione più affettuosa e corale alla vita e alle tradizioni locali. ☺
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