programma di vita
18 Aprile 2010 Share

programma di vita

 

Quanti di noi, oggi, si sentono davvero corresponsabili dei danni che il mito della crescita sta mietendo sul pianeta? Quanti di noi sono consapevoli che alle loro mani – prima ancora che agli inaccessibili giochi dei potenti, agli incomprensibili equilibri internazionali e ai cinici meccanismi economici e finanziari – è affidata la possibilità di invertire la rotta e scalfire il muro del “progresso” in nome di uno sviluppo più umano? Quanti di noi riescono davvero a credere che se rallenteremo, imboccando uno stile di vita più sobrio, non ci priveremo di nulla di essenziale, non finiremo in nessun baratro di privazioni e rinunce ascetiche, ma anzi il nostro benessere se ne gioverà perché respireremo un’aria più pulita, gli ecosistemi terrestri ritroveranno una stabile armonia, ci sarà acqua abbastanza per tutti, saremo più sereni, affettivamente più appagati, meno nevrotici e stressati, ugualmente benestanti e sicuramente più… felici?

La decrescita felice di Maurizio Pallante (Editori Riuniti, 2007) – protagonista brillante di una conferenza/dibattito tenutasi nel mese di febbraio presso l’auditorium “Lillina Lamensa” dell’I.C. “Igino Petrone” di Campobasso – aiuta a farsi queste domande e a chiedersi, una volta arrivati a p. 14, se quell’Introduzione per caso non è stata scritta proprio per noi. Noi, sì, popolo demotivato e pessimista del “tanto io da solo che cosa posso fare”?

Già il titolo è programmatico: la decrescita – cioè l’invertimento dell’attuale ritmo produttivo registrato e osannato dal PIL (Prodotto Interno Lordo) – può essere felice, anzi lo è senz’altro se viene scelta consapevolmente per tornare a modalità più umane e solidali di sfruttamento delle risorse e, di conseguenza, a relazioni più eque e serene sia a livello personale che internazionale.

I segnali sulla necessità di rivedere il parametro della crescita, su cui si fondano le attuali società industriali, continuano a moltiplicarsi, sebbene i più facciano orecchie da mercante e preferiscano vivere ben chiusi e ben sordi nel bozzolo del loro sicuro e privilegiato benessere: da dove cominciamo? Dall’imminente esaurimento delle fonti fossili o dalle guerre per averne il controllo? Dai cambiamenti climatici che stanno inaridendo a ritmi mostruosi intere fette del pianeta o dallo scioglimento dei ghiacciai che rischia di sommergere ampi spicchi delle nostre coste o ancora dall’aumento dei fenomeni atmosferici estremi – cicloni, tifoni e quant’altro – che minacciano ripetutamente popolazioni indifese contro la collera della natura? Dall’aumento dei rifiuti o dalle devastazioni che le varie forme di inquinamento ambientale stanno provocando sui paesaggi, sulla biodiversità, sui tassi di mortalità?

Non c’è che da scegliere. Eppure i capoccioni, gli economisti, i politici, gli industriali, insomma gli “esperti”, continuano a porre nella crescita vorticosa della produzione e quindi del famigerato PIL il segno distintivo nonché il segreto del progresso e il senso stesso dell’attività produttiva: produrre di più per far consumare di più per produrre ancora di più. In una spirale pericolosamente infinita che non tiene conto della finitezza delle risorse su cui si poggia.

In un mondo finito, con risorse finite, una crescita infinita è impossibile, anche se le innovazioni tecnologiche venissero utilizzate per ridurre l’impatto ambientale o per sfruttare fonti di energia più pulite e potenzialmente illimitate: l’aria, il sole, il vento.

Usare fonti di energia rinnovabili non è la soluzione di tutti i nostri problemi, insomma, se si continua a produrre allo stesso ritmo di oggi: è la produzione che va diminuita, e se poi l’energia usata è pure meno inquinante ed è inesauribile tanto meglio.

E allora? Come si fa? Maurizio Pallante pensa che sia arrivato ormai il momento di smontare il mito della crescita e di definire nuovi parametri per le attività economiche e produttive che si fondino su una pratica nuova: l’autoproduzione. Dei beni, però, non delle “merci”, cioè di quei beni che vengono scambiati con denaro e che, soli, vengono considerati dal PIL.

Autoprodurre, sì, in casa – affiancando questa pratica allo scambio/prestito con amici o familiari e integrando il tutto con l’acquisto di quello che proprio non si può “fare da sé” – tutto ciò che può servire a soddisfare i propri bisogni vitali: marmellata, pane, dolci, pasta, frutta, ortaggi…

Il libro si apre proprio con l’ipotesi di autoprodurre lo yogurt, ottenendo così un prodotto di qualità infinitamente superiore al primo (in termini di vitalità dei batteri) e assolutamente non inquinante, perché in casa non abbiamo certo bisogno di imballaggi di cartone, vasetti di plastica, coperture di alluminio e di tutta quella CO2 che viene liberata nell’aria dai tir che trasportano lo yogurt su e giù per l’Italia.

L’autoproduzione va poi a braccetto con la sobrietà, “una manifestazione di intelligenza e di autonomia di pensiero” – come la definisce Pallante, che si esplica in scelte personali che, sebbene ad un livello infinitesimale, possono provocare un decremento del prodotto interno lordo. Un esempio semplice, il riscaldamento domestico: meglio a 18° col maglioncino in casa o a 24° con la t-shirt e la finestra spalancata perché fa troppo caldo?

Va a braccetto con la riscoperta di un sapere e di un saper fare oggi troppo snobbato, perché considerato arretrato e poco scientifico, artigianale e semplice, e quindi poco trendy.

E va anche a braccetto col recupero di una dimensione più umana e solidale delle nostre relazioni, con un uso più saggio e benevolo del tempo, col ridimensionamento del lavoro nelle priorità della quotidianità: maggiore è la quantità di beni che si sanno autoprodurre, minore è la quantità di merci che si devono comprare, meno denaro occorre per vivere, meno lavoro occorre per guadagnare.

Produrre e consumare di meno significa, così, non dover lavorare a ritmi disumani per accumulare soldi e per poi delegare la cura dei figli piccoli o del padre anziano all’assistente domiciliare di turno. Significa riappropriarsi della malattia dei propri congiunti e assisterli di persona, aver tempo per giocare con i propri bambini e portarli al cinema o al parco a gustare un gelato in più, leggere un libro, fare una dormita, una gita, una chiacchierata.

Roba da romantici idealisti, per molti.

Roba da matti per troppi giganti economici (multinazionali in testa) che sulla crescita poggiano la loro sopravvivenza e la loro ragion d’essere. Interessi smisuratamente grandi verrebbero intaccati in questo modo.

Roba da prendere seriamente in considerazione, invece, per quanti accolgono questa lettura non come una provocazione ma come la proposta di un programma di vita e di consumo coraggioso e alternativo.

C’è d’altronde chi ci crede, chi lo sta già facendo e dice che si trova alla grande.

“La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal PIL”, recita il titolo completo. Verrebbe da aggiungere: dipende da noi. ☺

 

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