“Io viaggio da solo”, l'inciso in un prolungato monologo di un amico, mi ha fornito la chiave di lettura del lavoro letterario di Maria Concetta Barone; lei non viaggia mai da sola. La sua è una scrittura sempre parziale che accompagna i personaggi con devozione solidale lungo tutto il percorso narrativo, una scrittura che abbraccia, che accoglie, che comprende.
Alla presentazione dei suoi racconti, presenti nel libro 18 Racconti + 2 Edizioni Il Bene Comune, hanno rimarcato la presenza ricorrente dell'elemento sangue; elemento non casuale. Il sangue è materia, è vita, e qui assurge a simbolo di trasformazione, di distacco, di evoluzione dolorosa del percorso dell'essere umano.
Prosa, la sua, illuminata alla maniera di Caravaggio, la stessa luce obliqua a disvelare, la stessa materialità pulsante, i protagonisti sono segnati dalle stesse esperienze estreme dei volti ritratti da Caravaggio; la luce della pittura si traduce in una scrittura di parte che non narra semplicemente, ma condivide.
Si ha quasi l'impressione che l'Autrice non voglia lasciare andare i suoi personaggi, che li difenda costringendoli nella partitura scritta solo per loro e il lettore immagina la bambina che continuerà a stare dietro le grate di un balcone, e la smagliatura di una tenda che non sarà mai rammendata, e il fluire costante del ricordo di un amore negato. La reiterazione all'infinito di un dolore purché non ce ne sia uno nuovo, la fissione di un dolore perché se ne possa essere prima partecipi e poi distanti, la catarsi.
Altra cosa sono Le Stanze della Luna.
Versi che avvicinano al mistero, che traducono, anzi, in un proscenio incantato, in bilico tra la meraviglia e la tragedia. Linguaggio che torna alle radici perché è in quella direzione che volge la stupefatta, quasi involontaria, narrazione. Due ragazzi nascosti che evocano la luna per guardare meglio la notte, e scoprono l'origine del loro mondo, si congiungono al passato, ne ritrovano miti e matrici attraverso un viaggio in senso contrario.
Una poetica che crea immagini e figure indelebili, “Camminava dritto e scuro / alto come il cipresso / e spartiva la notte” e “ Sentimmo / la talpa scavarsi la tana / l'erba secca cercarsi la vita nei solchi”, che ritrae un mondo ritrovato nell'oscurità della notte.
Una ricerca nel buio della memoria, alla radice del cuore. ☺
cristina.muccilli@gmail.com
“Io viaggio da solo”, l'inciso in un prolungato monologo di un amico, mi ha fornito la chiave di lettura del lavoro letterario di Maria Concetta Barone; lei non viaggia mai da sola. La sua è una scrittura sempre parziale che accompagna i personaggi con devozione solidale lungo tutto il percorso narrativo, una scrittura che abbraccia, che accoglie, che comprende.
Alla presentazione dei suoi racconti, presenti nel libro 18 Racconti + 2 Edizioni Il Bene Comune, hanno rimarcato la presenza ricorrente dell'elemento sangue; elemento non casuale. Il sangue è materia, è vita, e qui assurge a simbolo di trasformazione, di distacco, di evoluzione dolorosa del percorso dell'essere umano.
Prosa, la sua, illuminata alla maniera di Caravaggio, la stessa luce obliqua a disvelare, la stessa materialità pulsante, i protagonisti sono segnati dalle stesse esperienze estreme dei volti ritratti da Caravaggio; la luce della pittura si traduce in una scrittura di parte che non narra semplicemente, ma condivide.
Si ha quasi l'impressione che l'Autrice non voglia lasciare andare i suoi personaggi, che li difenda costringendoli nella partitura scritta solo per loro e il lettore immagina la bambina che continuerà a stare dietro le grate di un balcone, e la smagliatura di una tenda che non sarà mai rammendata, e il fluire costante del ricordo di un amore negato. La reiterazione all'infinito di un dolore purché non ce ne sia uno nuovo, la fissione di un dolore perché se ne possa essere prima partecipi e poi distanti, la catarsi.
Altra cosa sono Le Stanze della Luna.
Versi che avvicinano al mistero, che traducono, anzi, in un proscenio incantato, in bilico tra la meraviglia e la tragedia. Linguaggio che torna alle radici perché è in quella direzione che volge la stupefatta, quasi involontaria, narrazione. Due ragazzi nascosti che evocano la luna per guardare meglio la notte, e scoprono l'origine del loro mondo, si congiungono al passato, ne ritrovano miti e matrici attraverso un viaggio in senso contrario.
Una poetica che crea immagini e figure indelebili, “Camminava dritto e scuro / alto come il cipresso / e spartiva la notte” e “ Sentimmo / la talpa scavarsi la tana / l'erba secca cercarsi la vita nei solchi”, che ritrae un mondo ritrovato nell'oscurità della notte.
Una ricerca nel buio della memoria, alla radice del cuore. ☺
“Io viaggio da solo”, l'inciso in un prolungato monologo di un amico, mi ha fornito la chiave di lettura del lavoro letterario di Maria Concetta Barone; lei non viaggia mai da sola. La sua è una scrittura sempre parziale che accompagna i personaggi con devozione solidale lungo tutto il percorso narrativo, una scrittura che abbraccia, che accoglie, che comprende.
Alla presentazione dei suoi racconti, presenti nel libro 18 Racconti + 2 Edizioni Il Bene Comune, hanno rimarcato la presenza ricorrente dell'elemento sangue; elemento non casuale. Il sangue è materia, è vita, e qui assurge a simbolo di trasformazione, di distacco, di evoluzione dolorosa del percorso dell'essere umano.
Prosa, la sua, illuminata alla maniera di Caravaggio, la stessa luce obliqua a disvelare, la stessa materialità pulsante, i protagonisti sono segnati dalle stesse esperienze estreme dei volti ritratti da Caravaggio; la luce della pittura si traduce in una scrittura di parte che non narra semplicemente, ma condivide.
Si ha quasi l'impressione che l'Autrice non voglia lasciare andare i suoi personaggi, che li difenda costringendoli nella partitura scritta solo per loro e il lettore immagina la bambina che continuerà a stare dietro le grate di un balcone, e la smagliatura di una tenda che non sarà mai rammendata, e il fluire costante del ricordo di un amore negato. La reiterazione all'infinito di un dolore purché non ce ne sia uno nuovo, la fissione di un dolore perché se ne possa essere prima partecipi e poi distanti, la catarsi.
Altra cosa sono Le Stanze della Luna.
Versi che avvicinano al mistero, che traducono, anzi, in un proscenio incantato, in bilico tra la meraviglia e la tragedia. Linguaggio che torna alle radici perché è in quella direzione che volge la stupefatta, quasi involontaria, narrazione. Due ragazzi nascosti che evocano la luna per guardare meglio la notte, e scoprono l'origine del loro mondo, si congiungono al passato, ne ritrovano miti e matrici attraverso un viaggio in senso contrario.
Una poetica che crea immagini e figure indelebili, “Camminava dritto e scuro / alto come il cipresso / e spartiva la notte” e “ Sentimmo / la talpa scavarsi la tana / l'erba secca cercarsi la vita nei solchi”, che ritrae un mondo ritrovato nell'oscurità della notte.
Una ricerca nel buio della memoria, alla radice del cuore. ☺
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