Regione che vai, scuola che trovi?
14 Marzo 2019
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Regione che vai, scuola che trovi?

L’autonomia delle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, in corso di approvazione, è un evento che sarà ricordato come uno spartiacque storico. Se sarà approvata, l’Italia cambierà radicalmente volto. Non solo e non tanto geograficamente, quanto piuttosto sotto il profilo della scelta dei valori ispiratori del vivere comune. La “secessione dei ricchi”, la stanno chiamando e, mentre il nostro numero è in stampa, seguiamo giorno per giorno, con seria preoccupazione, quel che sarà del nostro paese. Spaccato più che mai fra i “ricchi” che vogliono trattenere per sé i loro soldi, e i “poveri” che saranno penalizzati ulteriormente dalla perdita, da parte dello Stato, del sacrosanto ruolo di mediatore, di redistributore solidale della ricchezza comune prodotta dal paese. Il concetto che lo Stato è paragonabile ad una famiglia, in cui i redditi di tutti devono contribuire al benessere di tutti (specie dei più deboli, come può esserlo un bambino, un malato, un anziano bisognoso di assistenza…), sta lasciando il posto all’idea che quello che guadagno me lo tengo io, e che chi guadagna di meno si arrangia.

Il dramma è che tutto sta avvenendo in gran silenzio. La Presidenza delle regioni Veneto, Emilia e Lombardia, il 28 febbraio 2018, ha sottoscritto un accordo preliminare con la Presidenza del Consiglio dei Ministri in base al quale viene pianificata un’autonomia speciale su ben 21 materie per Veneto e Lombardia, e 15 materie per l’Emilia Romagna.

Tali materie vanno dall’istruzione alla giustizia, dalla finanza pubblica all’ ambiente, dal sistema tributario al lavoro, e così via. Per capire la portata strategica del cambiamento previsto da questi accordi preliminari (che potrebbero trasformarsi in un disegno di legge da presentare al Parlamento per l’approvazione) basta analizzare cosa cambia sul piano dell’attribuzione delle risorse finanziarie ai singoli territori e cosa cambia, dal punto di vita costituzionale, sul versante dei diritti inalienabili dei cittadini italiani.

I cittadini pagano tre tipologie di tasse in modo proporzionale al reddito percepito e alla ricchezza posseduta: tasse comunali, regionali, nazionali. Lo Stato incassa tutte le risorse finanziarie che i cittadini pagano e le ridistribuisce secondo parametri fondati da una parte sulla spesa storica e dall’altra sulla solidarietà verso i più deboli, meglio definita come sussidiarietà, ovvero un intervento dello Stato centrale a favore delle istituzioni periferiche. I soldi di uno Stato sono quindi soldi dei cittadini, non proprietà dei politici di questa o quella Regione.

La proposta di autonomia differenziata, avanzata dal Veneto e fatta propria dalle altre Regioni, parte invece da un altro presupposto: ogni regione manterrebbe per sé dall’80% al 90% delle tasse pagate dai propri cittadini e lascerebbe allo Stato il rimanente 10-20% come proprio contributo per il funzionamento dell’intera nazione. In questo modo la Regione autonoma avrebbe la possibilità di disporre di una quantità di risorse incommensurabilmente superiori a quelle attuali. Così facendo, le risorse di una Regione sarebbero rapportate al gettito fiscale e non più al fabbisogno standard di un territorio. Un disastro per il Sud.

Esempio semplice semplice. Se teniamo conto che il gettito fiscale del Veneto è il doppio del gettito fiscale della Calabria, ci rendiamo conto che una scuola o un ospedale del Veneto riceverebbero un finanziamento doppio a quello della Calabria, con la conseguenza di una compressione violenta dei diritti primari, costituzionalmente garantiti (l’istruzione, la salute!) dei cittadini calabresi. Non solo. In questo scenario il Veneto potrebbe pagare i suoi operatori scolastici e sanitari molto meglio di quelli calabresi, potrebbe dotare le proprie strutture al meglio della tecnologia e attrarre le migliori energie professionali da tutto il territorio italiano.

Per capire la posta  in gioco basta analizzare gli effetti di una simile manovra sulla scuola in generale. Non avremmo più un unico sistema nazionale di istruzione, con alle proprie dipendenze oltre un milione di operatori scolastici, ma tanti sistemi regionali quante sono le Regioni con autonomia differenziata. Il personale amministrativo e docente statale, come è previsto dagli accordi preliminari, potrebbe passere alle dipendenze della Regione e ad esso si aggiungerebbe un’aliquota di personale ministeriale che verrebbe trasferito da Roma alla Regione che godrà di autonomia differenziata. I soldi di cui ogni amministrazione scolastica potrà disporre verrebbero determinati in rapporto al reddito pro capite della regione di appartenenza e, più precisamente, le Regioni del Nord che adotteranno la nuova autonomia godranno mediamente di una ricchezza doppia rispetto alle regioni meridionali, come doppio è mediamente il PIL. Il Ministero dell’Istruzione verrebbe svuotato e depotenziato delle sue principali funzioni e dei suoi apparati direzionali e ispettivi, anche con il trasferimento alle Regioni di buona parte del personale ministeriale; non avremmo più un unico centro di programmazione e indirizzo nazionale per le riforme; non più un coordinamento centrale dei processi di cambiamento; non più un controllo ispettivo centrale della gestione educativa.

La logica del proprio orticello, ben coltivato, ben difeso, sanamente egoistico, sarà uno schiaffo alla missione principale della scuola, che è quella di ascensore sociale, di promotore di opportunità per chi merita (non per chi ha soldi e cognomi importanti), di istituzione capace di azzerare (o limitare, almeno) le differenze, i gap, sociali, culturali, economici, fra ricchi e poveri. La scuola perpetuerebbe le differenze, le renderebbe ancora più visibili, ne sarebbe essa stessa la prima vittima.

La mobilitazione è pronta, sì, va bene. Ma il silenzio assordante di tanti mi fa tristezza, mi fa paura. Il tifo di chi è d’accordo pure. L’assenza di un dibattito politico di alto livello, acceso, carico, appassionato, leale (pur nella discutibilità di alcune posizioni), mi avvilisce, mi indigna. Alla sventolata mobilitazione, rispettabilissima (parteciperò), preferirei una nazione che si interroga prima, che cresce in una maniera diversa, che non raccoglie i cocci di una cultura dell’egoismo, del muro, dell’io.

Teniamoci informati, alziamo la testa. E chiediamoci: ma dove stiamo arrivando?☺

 

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