Ricchezza immorale
4 Marzo 2015 Share

Ricchezza immorale

La speculazione – di cui si parla di continuo – consiste nel trasferire parte della propria disponibilità economica da altri possibili usi a una collocazione da cui ci si attende a breve termine un profitto maggiore. È dunque un’allocazione di ricchezza disponibile fondata su una previsione (speculazione) e quindi sempre con un certo margine di rischio, e mirata a incrementare al massimo possibile la propria ricchezza in tempi brevi o brevissimi. Ciò è reso possibile dalla comunicazione tramite computer e rete: oggi è possibile avere informazioni in tempo reale su allocazioni di ricchezza in tutto il mondo e sulla previsione dei relativi profitti (incremento di ricchezza), ed è possibile allocare ricchezze sempre in tempo reale e cambiare poi rapidamente allocazione.

Superbia delle ricchezze

Nella Scrittura e nella tradizione teologico-morale cristiana è condannato severamente il peccato di usura. Spesso si è considerato l’investimento come una forma di prestito a interesse, e quindi assimilabile all’usura, ma a torto. L’usuraio, o altre forme più moderne ma simili, dà in prestito a chi è nel momento del bisogno, in strettezze permanenti o momentanee, e impone scadenza e saggio di interesse sfruttando la debolezza di chi chiede. Nell’investimento invece non si fa un prestito, ma si partecipa al capitale di un’impresa per partecipare poi a una proporzionata quota degli utili. Inoltre nell’investimento il controllo delle eventuali scadenze e del saggio di interesse è determinato da chi riceve il denaro, non da chi lo dà. Ma la speculazione è un’altra cosa ancora, e del tutto diversa. In essa uno dà denaro al solo scopo di averne di più: non partecipa se non formalmente al capitale e ai suoi rischi, ma vuole esclusivamente avere di più entro breve termine (spesso pochi giorni o anche ore).

Il grande tema di morale economica nel Vangelo non è il settimo comandamento ‘non rubare’. Lo è stato, purtroppo, in tutti i testi di teologia morale fino a tempi postconciliari. Il grande tema è ‘non cercare di arricchirsi’ nel senso preciso di cercare di aver di più perché è di più; la ricchezza e la sua ricerca viste come fine in sé. Per il cristiano l’unico fine in sé, da perseguire in ogni circostanza, è il Signore e il suo Regno. Ricordiamo il cap. 16 di Luca. A commento della parabola dell’amministratore infedele il Signore contrappone una ricchezza iniqua alla ricchezza ‘vera’, una ricchezza non vostra (altrui) alla ricchezza ‘vostra’: Dio solo è la ricchezza per il cristiano. Irriso dai farisei (i potenti), Gesù risponde: “Grande davanti agli uomini, abominevole davanti a Dio”. Parole terribili, da applicarsi senza esitazione ai grandi della terra e specialmente ai più grandi, del mondo o di un singolo Stato. Non è necessariamente peccato essere ricchi: è invece sempre peccato non mettere la propria ricchezza a servizio del Regno, cioè dei tanti miseri della terra. Paolo pone nei suoi elenchi di peccati per i quali si è esclusi dal regno sia l’avidità che l’avarizia (l’unico termine greco ‘pleonexia’ può indicare tutte e due le cose a seconda del contesto); la voglia di aver di più e la voglia di tenerselo per sé escludono dunque dal regno. E nella prima lettera di Giovanni “la superbia delle ricchezze” (la traduzione CEI – la superbia della vita – è sbagliata) esclude dall’amore del Padre. Considerare le ricchezze come bene in sé, desiderabile per se stesso, è dunque idolatria come dice Paolo nella lettera ai Colossesi a proposito della pleonexia. Speculazione (o gioco in borsa, che poi sono la stessa cosa) sono da considerarsi gravi peccati.

Proprietà e denaro

Il ‘non rubare’, che ha ipnotizzato tutti i trattati di morale economica, è solo un caso particolare di questo peccato, con l’aggravante del danno e della violazione di diritti socialmente riconosciuti dell’altro.  Ma si stia bene attenti: il ricco ha il dovere (di giustizia) di dare il necessario al povero, e se non lo fa (“si tamen”, dice San Tommaso) e il povero gli prende il necessario per vivere, il povero non commette furto perché quello che prende era già suo. Tale è la dottrina di San Tommaso, coerente con tutti i Padri della Chiesa e soprattutto col Vangelo. Le ricchezze non sono mai un fine in sé, ma sono uno strumento per l’unico scopo della nostra esistenza: che venga il Regno, una comunità fatta di fraternità, di pace, di condivisione e non di sopraffazione o disprezzo del misero.  Il diritto di proprietà come naturale, sacro e inviolabile, – come lo concepiamo noi oggi – è maturato nella teologia morale solo a partire dal XVI/XVII secolo. Per i Padri della Chiesa il rubare e il non dare a chi ha bisogno sono lo stesso peccato. Il diritto di proprietà, come lo si intende oggi, nasce da regole generate nella gestione della convivenza, “ex humano condictu”, ed è sempre sottoposto e finalizzato al bene della comunità.

Più o meno negli stessi secoli, una nuova visione della ricchezza astratta – del denaro – è diventata dominante: dopo la prima industrializzazione la costruzione di macchinari e di impianti richiese capitali enormi concentrati in poche mani. Divenne così accettata come ovvia l’idea che la ricchezza (denaro) non serve solo a comprare beni utili, ma serve a produrre nuova ricchezza. Questa nuova ricchezza non viene tutta spesa per nuovi acquisti: una parte sempre maggiore per chi è già ricco serve a produrre  nuova ricchezza, e così all’infinito.

Vera idolatria

Grazie soprattutto ai nuovi mezzi di comunicazione, oggi il mondo della finanza è praticamente indipendente da quello della produzione. Il legame sussiste ancora: senza finanziamenti non si produce. Ma le grandi finanziarie planetarie muovono i capitali disponibili dove più loro conviene. Un tempo si investiva in imprese che producessero con qualità migliore e a prezzi concorrenziali. Oggi le grandi finanziarie vere, quelle cioè che controllano le altre di grado inferiore e le banche, hanno davanti a sé tutto lo spettro dei possibili investimenti nel mondo, sono in mano privata e traggono il loro profitto muovendo capitali sempre nel senso della massimizzazione del profitto privato che da questi movimenti sperano di ottenere. Possono perciò lasciare o far cadere una impresa anche ottima in favore di altre per motivi geopolitici (p. es. sostenere le finanze di un Paese alleato), o per deprimere l’economia di Paesi concorrenti (basta operare sulle valute: mettendo in crisi le aziende si può mettere in crisi un sistema bancario), o con mille altri scopi e modi. Ormai questo è un dogma. Deve avvenire a qualunque costo: salari di fame, licenziamenti, lavoro minorile etc. senza alcun riguardo ai grandi problemi della fame e della miseria della famiglia umana. Ciò a lungo termine produce drammi sociali ed economici, ma il lungo termine a loro non interessa.

In sintonia con il Vangelo e la più viva tradizione cristiana, si deve ritenere che ogni forma di speculazione o di gioco in borsa – per come oggi funziona – sia complicità o inavvertita cooperazione con l’ idolatria, col male assoluto in radicale opposizione con l’annuncio evangelico. Per esser fedeli al Vangelo i cristiani assumano il coraggio di schierarsi uniti a tutti gli uomini di buona volontà con cui condividono la sofferenza della famiglia umana.

Oseranno mettersi in crisi i “cristiani occidentali” del nord, promotori di tale sistema iniquo? ☺

 

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